Un'antidoping capace di garantire la dignità dell'atleta è possibile. Il caso Sinner
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L'Itia ha preferito fare indagini approfondite sulla positività del tennista sudtirolese al clostebol e solo dopo questi approfondimenti rendere nota la vicenda. Per una volta la dignità dello sportivo è stata tutelata
Giovanni Battistuzzi 21 ago 2024. Ilfoglio.it lettura3’
C’era un’immagine, un fotomontaggio, nella quale Jannik Sinner veniva raffigurato come un asso di coppe dopo aver vinto in tre mesi Canadian Open, China Open e Vienna Open. Un omaggio un po’ scontato alla sua bravura. Perché sono stati tanti i campioni dello sport che sono stati avvicinati all’asso di coppe prima di Jannik Sinner, altri ne verranno dopo lui. Tante sono anche le rappresentazioni dell’asso di coppe nei mazzi di carte regionali. Quello delle trevigiane è quello meno benaugurante. C’è scritto: “Per un punto Martin perse la capa”.
Se Martin perse la testa per un punto, Jannik ha rischiato di perdere tutto per circa 100 pg/ml di clostebol. Quella è la quantità che gli hanno trovato nelle urine in due controlli antidoping il 10 e il 18 marzo, durante e subito dopo il torneo di Indian Wells. Per la Wada, l’Agenzia mondiale antidoping, il clostebol è sostanza dopante. In passato molti atleti sono stati squalificati per concentrazioni equivalenti (o anche minori) a quelle trovate nelle urine di Jannik Sinner.
Poteva accadere anche per il campione sudtirolese. E nessuno avrebbe trovato nulla da dire. È passata l’idea che la presenza di una sostanza proibita all’interno di sangue o urine sia evidenza di un tentativo di frode sportiva. Ed è stato inutile in questi anni di caccia agli impostori dello sport provare a spiegare che a volte può capitare di ritrovarsi accusati di essere un baro senza aver provato a barare. E che certe giustificazioni che sembrano un’arrampicata sugli specchi per tentare di evitare la squalifica, in realtà non lo sono. A volte è meno improbabile di quanto sembra venire in contatto con sostanze non consentite in quanto utilizzate in farmaci da banco o di facile prescrizione (comunque sempre ben segnalate nei bugiardini e nelle scatole). Il clostebol è tra queste. È uno steroide anabolizzante sintetico, una versione modificata del testosterone, che serve per la cura delle lesioni cutanee. Venne sintetizzato a metà degli anni Cinquanta, il brevetto venne depositato in Illinois nel 1960. Da lì venne utilizzato in tutto il mondo, anche al di là della cortina di ferro. In Unione sovietica ne apprezzarono la capacità di migliorare le prestazioni sportive: favoriva l’aumento della massa muscolare e la resistenza. Gli atleti e le atlete sovietiche e della Ddr venivano massaggiati con creme a base di clostebol.
Per un massaggio (quello fatto dal massaggiatore che aveva utilizzato un farmaco contenente clostebol su di una ferita) Sinner si è ritrovato catapultato indietro nella storia. La quantità minima, del tutto insufficiente per dare benefici sportivi illegali, ha fatto sorgere il dubbio all’International tennis integrity agency (Itia, l’antidoping del tennis) che qualche approfondimento in più andasse fatto. Per una volta l’antidoping ha deciso che andava garantita l’integrità anche dell’atleta e non solo dello sport. L’Itia ha scelto di non esporre l’atleta alle accuse di giornali, tv e tifosi, ha tutelato il suo diritto a fare chiarezza. Il processo mediatico è iniziato comunque, ma almeno dopo la sentenza dell’antidoping. Almeno questa volta la dignità dello sportivo è stata tutelata.
Non è stato così in passato. Molti atleti per quantità minime di clostebol, del tutto insufficienti a un miglioramento delle prestazioni fisiche, hanno visto la loro carriera distrutta.
Lo ha ricordato su Facebook l’ex ciclista Stefano Agostini che per qualche nanogrammo venne squalificato e trattato come un imbroglione. Si è chiesto perché a lui non è stato concesso il trattamento riservato a Jannik Sinner. Fa bene a chiederselo (il ciclismo in questi anni, anche per evitare altri casi del genere, ha comunque cercato di creare un sistema capace di tutelare la lealtà sportiva e l'atleta). Nessuno potrà ridargli gli anni persi, la speranza però è che il caso Sinner sia uno spartiacque e che da ora in poi tutte le agenzie antidoping seguano l’esempio di quella tennistica.