La democrazia non si addice all’alpinismo
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Sono sempre di più coloro che si cimentano in salite impegnative, ignorando divieti e mettendo a repentaglio la propria vita. Ma arrampicarsi non è uno sport alla portata di tutti.
PAOLO MARTINI, 09 settembre 2017, da www.lettera43.it
Crolli che feriscono le più belle montagne alpine, incidenti e chiamate continue al soccorso alpino, arditissime e irripetibili imprese in solitaria, polemiche sempre più assurde - come quella sul divieto di scalare la cima del Bianco dalla Francia senza un’attrezzatura adeguata, ovvero in pantaloncini corti e scarpe da running. Le cronache dell’estate forniscono più di uno spunto per chiedersi se non sia giunta l’ora di decretare la fine dell’alpinismo così come lo abbiamo conosciuto per cento e cinquant’anni. Eppure l’assalto insensato alla montagna non si placa: anzi, sembra che la gran parte dei praticanti dilettanti non facciano nemmeno più caso alla soglia del pericolo, affrontando scalate su ghiaccio nonostante lo zero termico sia sopra i 4mila metri, oppure arrampicate lunghe e impegnative durante le cosiddette finestre di bel tempo, che purtroppo non bastano mai.
QUEGLI ALLARMI IGNORATI. C’è addirittura chi s’arrischia nelle zone con pareti notoriamente soggette a crolli. Dopo la rovinosa frana del pizzo Cengalo, annunciata da giorni, con il divieto di frequentare sentieri e rifugi intorno, si sono registrate una decina di vittime, che evidentemente hanno ignorato l’allarme. L’hanno scampata, per fortuna, le cordate che si trovavano in alto sullo sperone nord ovest dello stesso Cengalo, dirimpetto alla celeberrima parete Nord del pizzo Badile, teatro di una storica impresa di Riccardo Cassin e ora non più frequentabile, come gran parte della val Bregaglia, dopo la colossale frana che ha chiuso, tutt’altro che simbolicamente, l’estate della fine dell’alpinismo. Sotto la vetta del Cengalo si era formato un enorme lago che ha spinto le rocce a valle, verso il confine tra Svizzera e Italia al passo del Maloja, un panorama celebrato dai grandi pittori come Giovanni Segantini.
GLI EFFETTI DEL GLOBAL WARMING. Gli effetti tragici del riscaldamento globale si fanno sentire allo stesso modo un po’ ovunque sull’intero arco alpino. Per le Grand Jurasses i geologi prevedono che possano franare con il loro Cucciolone, il grande ghiacciaio pensile, travolgendo la val Ferret, sopra Courmayeur. Sono a rischio persino molte salite classiche del Monte Bianco: il rifugio Gonella, che segna l’inizio della via italiana, è stato chiuso frettolosamente a fine luglio; gli stessi ghiacciai del Miage e della Brenva, sul versante italiano, vengono monitorati con ansia. Anche sulla montagna mito dell’Oberland, il celeberrimo Eiger, si considera imminente un cedimento rovinoso nella parete Est. Eppure, paradossalmente, l’allarme ambientale è solo una piccola parte del problema.
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Da un secolo e mezzo la retorica alpinistica vede nelle montagne «un terreno in grado di schiudere vaste possibilità di ardite imprese e l’imperitura fama per gli eroi a venire» (Leslie Stephen, dal saggio che sancì la nascita dell’età d’oro dell’alpinismo, "The Playground of Europe", 1871). Ma ormai di eroico non c’è più niente, men che meno l’incoscienza diffusa di cui si lamentano all’unisono le stazioni del soccorso alpino sempre più indaffarate. Nonostante i danni del riscaldamento globale abbiano messo a rischio lo stesso "terreno di gioco", nessuno ha il coraggio di decretare la fine dell’alpinismo e migliaia di persone non esitano ad affrontare ugualmente le cime che l’innalzamento dello zero termico rende di fatto alquanto pericolose. Basta scorrere le pagine di cronaca dell’estate, costellate di tragedie e d’incidenti, con le inevitabili conseguenze polemiche, per rendersene conto.
FUNAMBOLI DELL'IMPOSSIBILE. Anche i miti da emulare, del resto, sono al limite della follia. L’estate della fine dell’alpinismo si è aperta con l’impresa del nuovo campione di free solo Alex Honnold: in meno di quattro ore ha scalato, senza corda né protezioni, quasi mille metri di parete aggettante su El Capitain, la montagna di granito conosciuta per aver dato il nome a un sistema operativo Mac, dove compare sullo sfondo. Un mese prima era morto sul Nuptse, vicino al campo 1 dell’Everest, Ueli Steck, considerato il più grande alpinista degli ultimi vent’anni, dopo una carriera costellata di successi al limite dell’impossibile, quasi tutti in solitaria e con tempi di una velocità irripetibile. L’alpinismo estremo in purezza, lodevole svolta che dal ‘68 ha avuto in Reinhold Messner uno dei punti di riferimento, ha prodotto come esito finale lo scalatore free solo. Questi funamboli dell’impossibile trovano un terreno d’elezione anche sulle grandi pareti delle Dolomiti: a fine agosto il giovane austriaco Hansjörg Auer ha concatenato in giornata tre scalate senza corda, alquanto impegnative, sulla Marmolada, il Piz Ciavaces e il Sass d’la Crusc, scendendo dalle vette con il parapendio.
TRA SPORT E TURISMO. Il livello di difficoltà e il quoziente di rischio dei nuovi alpinisti di punta sono talmente alti che solo una ristrettissima cerchia di professionisti si può permettere anche solo di pensare di imitarne le gesta. Ma prendere atto che l’estremismo sia più della malattia senile dell’alpinismo, non è da tutti. Lo fa perlomeno Messner, che pure ha sempre ammirato le imprese di Steck o di Alexander Huber, quando realizzò uno spaventoso free solo sulla parete Nord della Grande di Lavaredo: «La montagna, oggi, viene usata dal cittadino soprattutto come un “playground of sport”, che è molto diverso dallo storico “playground of Europe”. Lo stesso alpinismo vira da una parte sempre di più verso lo sport, verso la prestazione fisica eccezionale, e dall’altra verso il turismo, a danno dell’alpinismo tradizionale che, se non è del tutto sparito, poco ci manca…».
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Così anche la polemica dell’estate non ha investito gli scalatori veri e propri, ma i runners, che affrontano le montagne in maglietta e scarpette, persino a quattromila metri. Dopo alcuni incidenti mortali nonché una teoria infinita di interventi di soccorso alpino, un sindaco francese ha vietato di salire verso la cima del Bianco senza le adeguate attrezzature. Per reazione, il famoso skyrunner Killian Jornet, recordman incontrastato di salite leggere e veloci alle cime, ha postato la sua foto nudo sulla vetta del Bianco. Del resto, non si può pretendere ragionevolezza in un mondo come quello dell’alpinismo e degli sport estremi.
IL DECADIMENTO DEL VALORE ALPINISTICO. Persino un alpinista intellettuale come Alessandro Gogna non sa bene da che parte stare: «Che ci sia stato il progressivo decadimento di ogni valore alpinistico, con un abbraccio incondizionato al consumo e al business, è più che vero. Ma sulla moda dei runners, bisogna ammettere che la velocità, la leggerezza, la solitudine, le nuove sfide attirano molto. E non possiamo imbrigliare chi raccoglie nuove sfide. Non si può fermare uno sciatore estremo e neppure costringerlo a un particolare abbigliamento e a una precisa attrezzatura. Non si possono proibire né il free solo né la tuta alare, imponendo cintura e corda o la vela del parapendio». Sarà, ma qualcuno dovrebbe anche avere il coraggio di dire che, se si può arrivare oltre i 4 mila metri con pantaloncini e canottiera, forse è il caso di lasciar perdere.
Questo articolo è tratto dal nuovo numero di pagina99, "il welfare delle mance", in edicola, digitale e abbonamento dall'8 al 14 settembre 2017.