“MONA”! AVETE MAI PENSATO DA DOVE DERIVA?

In questo mio viaggio attraverso quelle piccole cose venete che segnano l’appartenenza alla nostra terra, scoprire da dove arriva la parola “mona” era una mia curiosità.

Alberta Bellussi, 15.9.2017 da www.ilcuoreveneto.it

“Mona” è uno dei termini che ci appartiene; possiamo dire che  è  di proprietà di tutti i Veneti; non ha nemmeno inflessioni o varianti in tutta la Regione,  lo si usa nella stessa forma ovunque ma ha molti significati dipende dall’uso e  dal contesto.

E’ una parola che continua ad essere molto usata e può avere  significato offensivo oppure semplicemente un intercalare.

Letteralmente indica l’organo genitale femminile.  In passato l’etimologia della parola “mona” era, sempre, stata collegata al termine latino “mea domina”, che significa mia signora, mia padrona, oppure Madonna, la seconda, accreditata dalla prestigiosa firma di Manlio Cortelazzo, faceva risalire il termine al greco “bunion”, e poi “muni” cioè monte, collinetta, da cui “monte di Venere”.

La parola, secondo altri storici, potrebbe essere di origine celtica, popolo che abitava la Regione, dove “mònes”  indicava la scimmia.

Ma la versione più accreditata, anche da un recente studio di Onghia (ricercatore della Normale di Pisa),  fa derivare questo termine  dall’arabo “maimun”, che vuole dire “scimmia” o “gatta”, simbolo del peccato o della lussuria, quindi utilizzato per riferirsi anche all’organo sessuale femminile.  Era stato d’altronde lo stesso Marco Polo a raccontare del “gatto mammone” che in realtà era una scimmia che assomigliava a un felino. Scimmia in quanto animale peloso, come l’”oggetto” in questione, ma anche simbolo del peccato di lussuria, nell’iconografia cristiana. Il termine “maimòne” si ritrova anche nei più antichi dizionari di italiano ad indicare infatti un particolare genere di scimmia, appartenente alla famiglia dei cercopitechi.

Un’ipotesi questa che allineerebbe l’uso dialettale veneziano al francese (“moniche/ mouniche”), al castigliano (“maimón”), al catalano (“maimó”) e alle voci di gergo statunitensi “monkey” e “monkey box”. Ma la metafora animale per indicare l’organo sessuale femminile è largamente diffusa, in Italia e fuori: basti pensare a “passera”, “farfalla”, o al francese e all’inglese, con “chatte”, “cat” e “pussy”.

Ma ancora più curiose sono le molte espressioni e frasi fatte che usano questo termine.

“Te si mona” viene spesso usato con l’accezione di uomo che fa lo stupido come una scimmia;.

“Mandar tuto in mona” è traducibile con un mandare tutto a rotoli.

“Va in mona” equivale al nostro va’ a quel paese o qualcosa di più volgare. Questo ha anche un’altra espressione “Va in mona dea Daria” questa signora povera sentirà ogni giorno fischiare le orecchie.

“Na monada” è un’espressione che significa scemenza, cosa di poco conto, stupidaggine. “Monade” sono i gesti leziosi compiuti dall’animale e nel dialetto diventano appunto le stupidaggini.

‘Ndar in mona”, infine, si usa per quelle cose o quelle persone che si sono rincitrullite.

Alberta Bellussi

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