Altro che assunzioni. A Renzi non si perdona d’aver toccato (e bene) l’art.18
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Invece di chiedere al governo di tagliare il peso del fisco, Ires e Irap, sia a sinistra sia a destra si preferiscono ideologia e slogan
di Renzo Rosati | 18 Marzo 2016 ore 06:15 Foglio
La malcelata soddisfazione che ha accolto i dati Istat sulle assunzioni rivela il vero obiettivo delle polemiche: il Jobs Act, la più significativa riforma del governo Renzi. Dalla sinistra dei Landini e della Ditta del Pd, alla destra dei Salvini (che incontrando Marion Le Pen ha detto di voler abolire “il Jobs Act e le politiche del lavoro tedesche”) a quella, ahimè, dei Brunetta (“il Jobs Act è una bolla e Renzi non tweetta più”), è tutto un festeggiare il presunto fuoco di paglia della riforma: quasi che questa improbabile alleanza abbia voglia di tornare allo Statuto dei lavoratori datato 1970. Alla legge cioè che ormai bloccava il nostro mercato del lavoro allontanando gli investimenti e favorendo il precariato, legge che lo stesso centrodestra aveva iniziato a riformare, mentre su questi propositi fior di giuslavoristi di sinistra sacrificavano perfino la vita. Non è dunque argomento da trattare con gli slogan. Si obietta che Renzi lo fa: ma un conto è festeggiare il ritorno del lavoro, ben diverso congratularsi del contrario.
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Prima di tutto, però, le cifre. L’Istat certifica che nel 2015 i disoccupati sono diminuiti di 203 mila, e sono cresciuti di 186 mila i nuovi occupati. Dopo sette anni il tasso di disoccupazione scende, dal 12,7 per cento all’11,9; quello di occupazione sale al 56,3. Ancora sotto le medie europee, su queste colonne lo abbiamo sempre sottolineato, ma meglio così che il contrario. Le assunzioni sono cresciute del 13 per cento, e quelle a tempo indeterminato – ai sensi del Jobs Act e degli sgravi contributivi – del 54. Poi c’è il dato di gennaio. I posti di lavoro, assunzioni meno cessazioni, continuano ad aumentare, di 112 mila unità. Ma aumentano meno del gennaio 2015, e ancora meno di dicembre scorso, ultimo mese per fruire degli sgravi pieni. Dunque non è vero che si sono “persi 70 mila posti di lavoro”; e neppure che il Jobs Act è una bolla. E’ vero che con gli sgravi ridotti nell’importo e nella durata si assume meno; ma si assume. Si assume meno anche perché la ripresa è debole e incerta.
Ma che c’entra il Jobs Act? Il governo i posti non li può creare per legge; ma sinistra e destra, se deponessero un po’ di ideologia, potrebbero chiedergli piuttosto di tagliare ancora il peso del fisco – Ires e Irap – sul fattore lavoro (esclusi gli oneri contributivi). Che in Italia è al 31,4 per cento, secondo in Europa dietro la Francia (33,3): in Germania è il 29,7, in Spagna il 28, in Gran Bretagna il 20, in Irlanda il 12,5. E poiché non esistono pasti gratis, le coperture andrebbero trovate riducendo la spesa pubblica; oppure deviando dal rientro del deficit, consapevoli però che non si riduce il debito. Le opposizioni sono disposte a condividere queste responsabilità, o a proporre ricette migliori? Perché in fondo non stupiscono le intemerate di Landini, il quale nei talk-show annunciava stragi di lavoratori, fingendo di ignorare l’effetto degli sgravi; e neppure di Salvini formato Cgil. Colpisce invece che Massimo D’Alema, che nel 2000 da premier sottoscrisse con Tony Blair una proposta di riforma del lavoro (suo consulente Tito Boeri) e poi ritirò la firma per le ire di Sergio Cofferati, oggi non veda “un progetto riformista nel Jobs Act”; e che quel centrodestra che ebbe ministri innovatori come Maroni e appunto Brunetta, oggi scenda nella trincea della conservazione anziché sfidare Renzi a osare di più.
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