Oltre Libera. Che cosa c’è dietro la grande disfatta dell’iconografia antimafia
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Lo scontro tra don Ciotti e La Torre e tutte le macerie in cui oggi si muovono i professionisti del moralismo chiodato
di Salvatore Merlo | 03 Dicembre 2015 ore 06:18 Foglio
Roma. Don Luigi Ciotti è un ottimista, e l’ottimismo è di per se stesso un segno d’innocenza: chi non fa né pensa il male è portato a rifiutare di credere alla fatalità del male. Ed è forse per questo che il prete piemontese, il fondatore di Libera, la più estesa rete di associazioni che in Italia si occupa di gestire i beni confiscati alla mafia, dice “che non c’è nessun problema” nella sua creatura nata vent’anni fa dopo gli anni terribili delle stragi e coltivata in quel clima di rinascita, di primavera palermitana, in quella stagione d’impeti morali e di buone intenzioni che don Ciotti ha incarnato non meno di Gian Carlo Caselli, suo amico, il magistrato ed ex procuratore della Repubblica che questo prete impegnato e di sinistra andava a trovare nelle torri blindate del quartiere la Favorita, quando si cominciava a scrivere un capitolo tra i più confusi e inafferrabili della storia politica e giudiziaria d’Italia. Quando cioè da quelle stanze bunker di Palermo cominciarono a essere istruiti il processo a Giulio Andreotti, il processo “del secolo” o il processo alla “storia”, e poi la grande inchiesta su Corrado Carnevale, il giudice “ammazza sentenze” assolto e reintegrato in magistratura, fino alla ricerca del terzo livello e dei mandanti occulti delle stragi.
Così, di fronte ai contrasti che hanno portato all’allontanamento di Franco La Torre, suo collaboratore a Libera e figlio di Pio La Torre, il dirigente del Pci assassinato dalla mafia nel 1982, di fronte alle allusive ma ferme accuse del suo braccio destro di non essersi accorto e forse persino di essersi fidato (e dunque inevitabilmente affidato) al sistema dell’antimafia deviata scoperchiato dalla procura di Caltanissetta, don Ciotti dice che “è da molto tempo ormai che ci attaccano da diverse direzioni. Prima si conosceva il nemico, era la mafia”, ha detto a Repubblica. “Ora gli attacchi arrivano da più parti. Non accettiamo tuttologi. Se si vogliono fare delle critiche si indichino fatti precisi”. E insomma, con gli occhi fissi davanti a se, don Ciotti, guidato dalla sua purezza di visione come da un invisibile arcangelo, sembra quasi non vedere, non udire il trambusto indiavolato che lo circonda, quel pandemonio attraverso cui passa l’antimafia tutta, lui che pure, qualche mese fa, aveva usato parole dense: “L’antimafia non è più un fatto di coscienza”, aveva detto, “ma una carta d’identità: se la eliminassimo, forse sbugiarderemmo chi ci ha costruito sopra una falsa reputazione”.
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E d’altra parte, per la verità, La Torre ha indicato due circostanze precise in cui la dirigenza di Libera non sarebbe riuscita “ad intercettare” i guasti e il malaffare, cioè a evitare di venire a contatto con interessi poco limpidi che si muovevano attorno al sistema istituzionale con cui in Italia vengono gestiti i beni sequestrati alla mafia: a Palermo, nell’affaire del giudice Silvana Saguto (l’ex presidente delle Misure di prevenzione del tribunale di Palermo indagata per corruzione e abuso d’ufficio), e a Roma, nei rivoli torbidi della cosiddetta Mafia Capitale. La Torre ha poi avuto un aspro confronto con don Ciotti – o almeno così dice lui: “Mi ha scaricato con un sms” – e si è dunque dimesso, in violentissima polemica. Ma al di là delle ragioni e dei torti di ciascuno, questo conflitto deflagrato in pubblico, sui giornali e sui siti internet, in un contesto in cui gli ultimi fatti di cronaca giudiziaria descrivono un’antimafia deformata, mostrificata, “infangata dagli scandali”, come ha detto il presidente del Senato ed ex procuratore antimafia Pietro Grasso, con arresti in flagranza di reato (l’ex presidente antimafia della Camera di commercio di Palermo Roberto Helg), con indagini su impegnatissimi esponenti della Confindustria siciliana (Antonello Montante), indagini che sfiorano imprenditori come Mimmo Costanzo, e poi ancora magistrati, avvocati, fino alle vicende non penalmente rilevanti ma politicamente disastrose di Rosario Crocetta (già “icona” dell’antimafia), insomma in questo contesto crepuscolare della stagione antimafiosa la vicenda di don Ciotti e Franco La Torre assume un suo speciale rilievo nell’atroce degrado che viene imputridendo come un tumore dentro la guerra alla mafia.
Quando si parla di mafia, quando ci si accosta alle stragi, agli orrori, al sangue versato dall’eroismo di carabinieri, poliziotti, magistrati, sacerdoti, amministratori pubblici, s’accelera il metabolismo di ciascuno. Ma questo groviglio di eroismo e barbarie, di impegno civile e di sacrificio estremo, richiede una delicatezza che tuttavia non può trasformarsi in reticenza. “Il mondo dell’antimafia è ricoperto di macerie”, ha detto Salvatore Lupo, lo storico, il professore, il più grande studioso di Cosa nostra: “Più si allontana il tempo drammatico dell’emergenza più si svuota l’idea di pulizia e s’imbarcano in questo fronte carrieristi, lestofanti, impostori. Guardiamo quante imprese hanno aderito al fronte antiracket, quanti politici hanno iniziato a gridare ‘la mafia fa schifo’. E’ la grande impostura dell’antimafia”. Un fenomeno che è stato motore della lotta – efficace – contro la criminalità organizzata, fatto di leggi che si sono affinate col tempo, composto di consenso sociale, di figure dignitose, un meccanismo che ha contribuito in maniera tangibile a intaccare il potere della mafia, ma che pure ha subito una degenerazione, non sempre, non dovunque, ma strisciante, pervasiva, inquinante – “c’è una mafia dell’antimafia”, ha detto Claudio Martelli. Eppure un meccanismo insospettabile a prescindere, perché chiunque in questi anni si sia mai definito antimafioso – attenzione: antimafia erano anche Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo – è rimasto come protetto da un incontestabile alone di santità, nell’incarnazione più completa e sorprendente, forse preoccupante, del professionismo descritto da Sciascia.
Ogni professione ha un costo, ha un albo d’onore, una storia, una geografia, una pianta organica, un sapere specialistico, una retorica e un’aneddotica. E allora quello che allarma, e tormenta, è l’idea che anche Libera, come altre associazioni, istituzioni private e pubbliche che si occupano della gestione dei patrimoni mafiosi, possa essersi in qualche modo mineralizzata sotto gli occhi dolci e velati di don Ciotti, trasformata cioè, con la sua rete di milleseicento associazioni, con i millequattrocento ettari di terreni confiscati alla mafia, le centoventisei persone impiegate, il fatturato di sei milioni di euro nella sola gestione dei beni del 2013, in un organizzazione di tipo politico, quasi una lobby, come suggeriscono i più accesi tra i detrattori, o comunque in un’organizzazione complessa, con i suoi interessi, i suoi eletti in Parlamento (Davide Mattiello, deputato del Pd, ex dirigente di Libera, relatore della riforma del Codice antimafia), con i suoi candidati nei diversi movimenti politici (due per il partito di Antonio Ingroia, uno per il partito di Nichi Vendola), e dunque le sue divergenze di linea interna, di orizzonte non soltanto manageriale – come sembra testimoniare il caso di Franco La Torre: “L’associazione ha dei meriti enormi”, ha detto l’ex dirigente di Libera all’Huffington post. “Ma qualcosa non va nella catena di montaggio. La mia non è una critica alla persona di don Ciotti bensì al metodo democratico. Non è più un club, è una associazione nazionale dove tutti devono prendersi le proprie responsabilità”.
Due mesi fa l’Italia ha scoperto che il manager più pagato d’Europa non era Marchionne, né l’amministratore delegato di Deutsche Banke John Cryan, ma un tale Gaetano Cappello Seminara, sovrano degli amministratori giudiziari d’Italia, pupillo delle sezioni di misure di prevenzione dei tribunali, indagato a Caltanissetta assieme al giudice Saguto, in una storia di favoritismi sfacciati e di gestione familistica delle attività imprenditoriali sottoposte a sequestro: per duecento giorni di lavoro l’avvocato Seminara aveva chiesto diciotto milioni di euro alla Italcementi, azienda i cui vertici erano sospettati di aver favorito Cosa nostra. Sono i fatti a descrivere la deformazione dell’antimafia, trascinata in una palude, stretta in legami stabili con i misteri dell’Interno e dell’Istruzione che elargiscono considerevoli somme di denaro pubblico con una discrezionalità assai discutibile, tra bandiere al vento, agende colorate, frasi sgorgate da una grandezza e una commozione con il tempo divenute retoriche, vale a dire una via d’uscita illusoria da quel labirinto della verità che, ormai lo sappiamo, è fatto di mafia e di antimafia. “L’Antimafia dovrebbe guardare al proprio interno”, ha detto Pietro Grasso qualche giorno fa, “e dovrebbe abbandonare il sensazionalismo, il protagonismo, la pretesa primazia di ogni attore, la corsa al finanziamento pubblico e privato”, non dovrebbe cioè muoversi come un “potere”, che per sua definizione scatena anche lotte per il potere. L’antimafia politica si è squassata in un macello di conflitti tra Leoluca Orlando, Beppe Lumia e Rosario Crocetta. L’antimafia Confindustriale è esplosa in Sicilia nel conflitto tra Marco Venturi e Antonello Montante (poi inquisito). Dopo ogni guerra, dopo ogni rivoluzione, così come dopo una pestilenza, si sa che i costumi decadono. Ed ecco il punto. Quel che don Ciotti non può permettersi è di diventare un’altra figura di quel genere letterario dominato dai professionisti dell’antimafia, ai quali probabilmente molto più della lotta alla mafia interessa la rendita di posizione che da questa vicenda politico-burocratica possono ricavare.
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