Elogio della democrazia armata, di chi la incarna e tutela la visione del tramonto
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Ho cercato un motivo di ottimismo in questi dieci giorni infernali, e l’ho trovato. Non è in me, perché ho paura, e quando sfido e vinco la paura mi sento ridicolo. Il motivo di ottimismo è l’esistenza in vita dello stato
di Giuliano Ferrara | 22 Novembre 2015 ore 06:27 Foglio
Ho cercato un motivo di ottimismo in questi dieci giorni infernali, e l’ho trovato. Non è in me, perché ho paura, e quando sfido e vinco la paura mi sento ridicolo, mi sento Candide senza neanche la decisione finale di coltivare il proprio giardino. Non è nella società e nell’opinione comune, perché mi sembra inane lo sforzo collettivo di negare l’evidenza, la mano di un Dio ostile che arma gli assassini, lo scontro di civiltà e di religione squadernato davanti al raduno dei ciechi che si rincorrono nel parco giochi delle emozioni, delle tenerezze, delle recriminazioni collettive contro i cattivi che fanno la guerra, che bombardano, che producono e commerciano in armi invece che offrirsi buone intenzioni.
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Il motivo di ottimismo è l’esistenza in vita dello stato, il funzionamento armato della democrazia. Ci sono giovanotti che per poche lire, per disciplina, per devozione eroica al mestieraccio rischiano la vita, accerchiano i covi, irrompono, spremono la fatica di investigare, di prevedere e prevenire quando possibile, s’industriano negli apparati della forza a garantire la pace e la sicurezza usando il monopolio della coazione violenta destinato alla loro missione civile. Come i soldati che combattono, che presidiano, che proteggono. Quelli che ci hanno liberato di Bin Laden e di Saddam e del governo talebano, la barriera oltre la quale siamo carne da macello, civili e borghesi e popolo senza un’arma e senza un Dio. So apprezzare il pensiero conseguentemente libertario, amo e difendo la privacy, ma quando in tanti si emozionano per la loro incapacità d’odio, per la loro misericordia anche facile e destituita di pietà, ecco che penso all’epica della sicurezza collettiva, al fatto che c’è qualcuno che risponde delle metropolitane, dei teatri, degli stadi, dei caffè con i loro dehors, degli alberghi di lusso, delle università, delle sinagoghe, delle chiese in tutti i continenti. Questo qualcuno è lo stato, il sistema degli stati, le classi dirigenti che fanno il loro dovere di cittadinanza, e gli uomini e le donne che incarnano la funzione.
Se il mondo fosse governato dai nostri cuori, se avessimo a disposizione soltanto i paternoster e i lumi razionali della chiacchiera contemporanea, saremmo spacciati. Saremmo già prosternati in direzione della Mecca, incorniciati da un mihrab globale, che è un gesto cultuale bellissimo, ma se imposto è una bestemmia. Nel 1966 feci un viaggio precoce nella swinging London, ospite di Rossana Mattioli, una splendida resistente oggi bellissima e giovanissima vecchia signora. Mi spiegò una volta per tutte che in quel paese, dove allora viveva, la gente non ha paura della polizia e dei soldati, e li chiama in soccorso ogni volta che sia necessario, senza complessi.
Vorrei che i chattanti si ricordassero ogni volta che fanno clic quanto devono allo stato per l’aria che respirano, per la visione del mattino, per le emozioni di un tramonto in campagna o al mare, per le luci della città, per il tessuto delle libertà che gli fa da coperta la sera, per la protezione che tutti, perfino gli stupidi, rivendicano come diritto quando prendono un bus, quando vanno a scuola o accompagnano i figli, quando passeggiano o vanno a teatro o allo stadio. Ho imparato a fidarmi dello stato senza idolatrarlo, a capire quanto sia importante la politica buona per quanto fangosa e complicata, negli anni Settanta a Torino: si uccideva in nome della lotta di classe internazionale, anche quello un Dio, il Dio che è fallito. Ora ci risiamo, e non riesco a confidare negli scrittori, negli ansiosi intellettuali che governano le anime, e nemmeno più nell’alto clero che governa la chiesa, nei puristi della democrazia, nei profeti dell’emozione bella e immortale: mi fido più modestamente dei poliziotti e dei soldati e delle soldatesse e di coloro che cerco di scegliere al meglio per esercitare in Occidente un potere decisivo, quello di proteggere me e i miei cari, i miei amici, i miei semblables, i miei frères e le mie soeurs, e perfino i miei avversari, anche quelli ipocriti e tortuosi, anche quelli che agitano la bandiera dell’irrealtà e dell’ideologia.
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