Renzi e l'errore di non pronunciare la parola "guerra"
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Riflessioni sulla strategia della politica lassativa che rinuncia a chiamare le cose con il loro nome
di Claudio Cerasa | 19 Novembre 2015 ore 06:18
Non lo possiamo dire anche se lo stiamo facendo. Non lo possiamo ammettere anche se lo stiamo pensando. Non lo possiamo riconoscere anche se lo stiamo programmando. Non lo possiamo dire ad alta voce perché poi c’è la gente che si incazza, c’è Grillo che urla, c’è il Parlamento che mormora, c’è il Vaticano che brontola. E anche se l’Italia ha schierato negli ultimi diciotto mesi 530 militari in Iraq, addestrando e armando le forze di sicurezza curde e irachene a Erbil e Baghdad, portando in cielo due velivoli a pilotaggio remoto chiamati Predator, un velivolo da rifornimento in volo chiamato KC-767 e quattro velivoli A-200 Tornado in versione IDS per la ricognizione e la sorveglianza. Anche se fuori dall’Italia ci sono ormai 4.700 militari italiani impiegati in missioni internazionali, che corrispondono a quasi la metà dei nostri militari impegnati per la difesa (in tutto sono 11 mila).
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Anche se prima o poi tutti sanno che la nostra presenza in Libia smetterà di avere le sembianze felpate dell’azione diplomatica e comincerà ad assumere le sembianze più concrete dell’azione militare, sia andando sulle coste libiche per contrastare gli scafisti sia entrando nello spazio aereo libico per bombardare i terroristi. Nonostante tutto questo, l’Italia continua a non trovare le parole per dirlo, e continua a girarci intorno, senza il coraggio di chiamarla in modo diverso da “operazione umanitaria” o da “missione di peacekeeping” e senza il coraggio di adottare l’unica parola che servirebbe per capire quello che sta succedendo nel mondo e quello che ci aspetterà un domani quando i nostri aerei cominceranno ad aprire il fuoco sulla Libia e forse anche sull’Iraq: la guerra. Raccontare una verità parallela, come in parte sta facendo Renzi, per paura che la parola “guerra” possa avere riflessi negativi sulla fiducia del paese, sulla ripresa dell’economia, sulla psicologia dei consumatori e sullo stesso consenso del premier non è solo un atteggiamento poco lungimirante di un capo di governo non ancora in grado di indossare l’abito pesante del commander in chief. E’ anche un riflesso diretto di un pensiero e di un linguaggio politicamente corretto che ci porta a limare le parole e contemporaneamente a chiudere gli occhi di fronte al nuovo mondo che ci si presenta davanti. E tutto si tiene e tutto fa parte di un unico problema che rientra nella categoria delle parole vuote dell’occidente. Dove la ritirata militare coincide evidentemente con una ritirata culturale – e dunque anche lessicale. Dove il terrorismo islamico lo si chiama “terrorismo” per evitare di essere accusati di fomentare l’islamofobia. Dove il fondamentalismo non nasce mai in modo spontaneo ma deve sempre essere maturato per rispondere a un qualche orrore dell’occidente. E dove l’intervento militare lo si applica e lo si mette in campo con la stessa balbuzie con cui si sussurra la parola war.
“Sono stato fra gli studenti – ha detto ieri il ministro degli Esteri Gentiloni – e mi ha colpito la percezione della paura. Non va sottovalutato il clima di questi giorni che sta creando una preoccupazione forte dinanzi alla quale la politica deve cercare di fornire risposte rassicuranti”. Il ragionamento è lineare e sensato ma ha un limite grande come un Tornado. La politica che rassicura raccontando una realtà che non esiste è una politica anti veritativa che svolge solo una funzione anestetica. E rinunciare a educare i propri elettori, e anche i propri figli, è un buon modo per assecondare le parole del Papa (“Questo mondo non riconosce la strada della pace ma vive per fare la guerra, con il cinismo di dire di non farla”) ma è il modo peggiore per fare quello di cui si dovrebbe occupare la politica. Semplicemente, fare i conti con la realtà. E la realtà oggi ci dice che per portare la pace non servono i fiori ma bisogna fare la guerra. Stop.
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