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Il debito con Bersani, il ritardo sui tempi di Renzi, la tentazione del putsch di Palazzo, la tagliola
di Mario Sechi | 23 Settembre 2015 ore 06:18
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Cambia l’abito quando serve. E’ tornato il procuratore capo, anzi non se n’è mai andato, Sua Eccellenza è sempre presente. Quando Matteo Renzi durante la riunione della direzione del Pd ha citato “il presidente del Senato” e lasciato cadere a terra la provetta fumante della riforma del Senato, da Palazzo Madama s’è udito un sulfureo fruscìo di toga: “Minacce? Io ne ho vissute ben altre. E come sanno bene tutti, non hanno mai influenzato il mio comportamento”. Oplà, salta fuori come un jolly dal cilindro il discorso anti mafiologicamente corretto, instrumentum regni di chi a una critica politica oppone un argomento fuori contesto, la biada ideale per il giornalismo collettivo a caccia di benpensanti da ciclostile.
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Leggendo sui giornali quelle frasi attribuite a Grasso (tra virgolette e mai smentite) molti senatori si sono chiesti “ma è davvero il presidente del Senato ad aver suggerito questa risposta da guerra nel Pacifico?”. Non conoscono il fiume carsico che scorre dentro il personaggio: Grasso ha una sua rete di relazioni, conosce i giornalisti, sa come mandare in (corto) circuito le notizie, e gli anni da magistrato non sono stati solo un lavoro di investigazione e studio sulla fattispecie di reato. Prima del suo lancio politico, Grasso ha irrigato il terreno delle amicizie, mai trascurando le consonanze, sempre sopendo le dissonanze. Ha il passo felpato dell’invisibilità. Succedendo a Gian Carlo Caselli alla guida della procura di Palermo, poteva cascare nell’errore di strafare, cercare il luccichìo del palcoscenico, ma in realtà Grasso fa tesoro dell’uso del soft power, schiva le polemiche, rispetto a Caselli sembra un membro del club della caccia, compassato, ironico senza eccessi, mai sopra né sotto le righe. L’esito è che i mozzorecchi lo detestano, mentre i garantisti pensano di aver trovato un interlocutore. Si sbagliano tutti: Grasso non ha un’idea fissa, ma un puzzle che si compone nella sua mente a seconda dell’occasione. E’ ubiquo, sempre dove serve. Preparava la candidatura da tempo, c’era solo il problema del quando e come. Il con chi era obbligato: il Pd vecchia maniera. L’occasione la svela Pier Luigi Bersani negli ultimi giorni di dicembre del 2012, presentando la candidatura del procuratore: “Come si è arrivati qui? Il precedente è la stima, il rispetto e l’attenzione. Poi è un’accelerazione: il 17 dicembre al brindisi di fine anno dal capo dello stato, quando mi sono trovato a dire a Grasso che volevamo mettere davanti due parole: moralità, lavoro, legalità. E una domanda: se era possibile darci una mano in questa riscossa”. Eccolo, il cocktail propizio, l’evento tintinnante che diventa trampolino di lancio.
Grasso c’è, morbido come un gatto che si gode il tepore del camino, e risponde sornione: “Vediamoci”. Punto. Impreziosire se stessi significa adornarsi anche di ampi silenzi che nessuno può leggere. Splash. Pietro era in perfetto orario per Bersani, ma in mostruoso ritardo per tutto quello che è arrivato con Renzi. Dopo lo spiaggiamento, resta aperto il diario di bordo dei due naufraghi che oggi fraseggiano a centrocampo cercando ogni tanto di nascondere la palla a Renzi, il quale è irruento, ma non fesso. Il segretario del Pd sa che se fa cilecca sul conteggio del Senato, viene infilzato e si ritrova Grasso alle spalle, sorridente, con il forchettone in mano e il cappello da chef, pronto a cucinare il menù di un governo transeunte ma non troppo, cotto a puntino per evitare a Mattarella il dispiacere di sciogliere le Camere non appena arrivato al Quirinale. Il problema è che questo disegnino inconfessabile non trova il “necessario consenso” in Aula. E’ un’avventura. E poi tutti temono Renzi come front-runner in campagna elettorale, ne conoscono la spietata concretezza (rivedere il film “La Stangata del Quirinale”). Che dilemma… Fare il putsch di Palazzo con Gianni Cuperlo? Attendere il rientro di Enrico Letta dall’esilio? E perché non chiamare anche Tafazzi? Non è aria, Renzi ha pronunciato la parola Tatarellum, il gingillo elettorale del Senato così va bene anche per Bersani. Certo, ci sono i colpi di testa… ma l’escamotage funziona e Grasso lo sa. Fa’ e disfa, alludi e illudi, poi arriva la realtà. Così dopo la tempesta oggi la discussione generale è diventata un’inaspettata doccia fredda per l’opposizione: il presidente del Senato ha contingentato i tempi degli interventi: da 20 a 10 minuti per ciascun iscritto a parlare. Tagliola. La politica è una regata, bisogna strambare per non finire sugli scogli e arrivare puntuali al prossimo cocktail allo yacht club.
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Impero. Grasso e la Boldrini sono le ultime (?) sentinelle che Bersani ha imposto al parlamento per un Governo che pensava di guidare. Alla fine danni.
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