D'Alema e Bersani sono al lavoro per alzare il prezzo dell'accordo
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C'è da aspettarsi una recrudescenza dell'aggressività della minoranza del Partito democratico alla ripresa parlamentare, quando si aprirà la fase conclusiva della discussione sulla riforma costituzionale?
di Sergio Soave Italia Oggi 5.9.2015
C'è da aspettarsi una recrudescenza dell'aggressività della minoranza del Partito democratico alla ripresa parlamentare, quando si aprirà la fase conclusiva della discussione sulla riforma costituzionale? I segnali che vengono dalle vecchie glorie della nomenklatura, a cominciare da Massimo D'Alema e Pierluigi Bersani, si direbbe di si. Gli argomenti che utilizzano, la «deformazione» della democrazia, la «rottura sentimentale» con l'identità di sinistra del partito, le accuse un po' paradossali di conduzione «stalinista» del partito e delle battaglia politica da parte di Matteo Renzi, sembrano tante fascine avvicinate al fuoco di un'inevitabile rottura.
Ma forse si tratta solo di un'illusione ottica. D'Alema e Bersani ormai appartengono al passato, non possono ragionevolmente ambire a un ritorno nel centro decisionale della politica e del partito, quindi esprimono le opinioni più urticanti per alzare il prezzo di un eventuale accordo dell'ultima ora. Ma su posizioni così ruvide possono raggruppare solo un manipolo minoritario di senatori (alcuni dei quali peraltro cominciano a pensare a una ricollocazione futura che dipenderà dalla leadership del partito). I dirigenti più giovani, quelli che si giocheranno davvero la possibilità di sfidare Renzi al prossimo congresso, che designerà un segretario candidato premier com'è scritto sullo statuto, sanno che la loro battaglia futura è persa in partenza se si renderanno responsabili di una crisi della maggioranza di governo. Da Roberto Speranza ai presidenti di varie regioni, che sono considerati oggi i possibili candidati antirenziani alle prossime primarie di partito, vengono toni più cauti, che sembrano preludere a un sostanziale cedimento. Sul punto cruciale, quello dell'elettività diretta o indiretta dei senatori (che in realtà non è affatto decisiva ma che è diventata tale per effetto dell'enfasi con la quale è stata trattata) anche i presidenti di regione non renziani faticano ad accettare l'ipotesi di togliere ai consigli regionali o alla sede elettorale regionale la potestà di nominare pro quota i senatori. Su questa base si può arrivare a un accordo accettabile anche da Renzi, che probabilmente sta cercando sotto traccia di identificare i contorni di una modificazione della riforma che la renda più digeribile ai suoi oppositori interni. D'altra parte si è già visto in molte occasioni come gli ultimatum dei «vietcong» della sinistra democratica siano spirati senza conseguenze e non è impossibile che anche questa volta vada a finire nello stesso modo. Resta il fatto che questa continua tensione logora l'immagine del governo e del partito, come testimoniano ormai con una certa sistematicità sondaggi ed elezioni parziali.
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