Mai dire scissione. La sinistra del Pd si porta avanti col lavoro e prepara già il congresso
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Buttare giù il premier è impossibile (?), meglio contendergli la segreteria. Carambola di nomi e illusionisti
di Salvatore Merlo | 03 Settembre 2015 ore 06:13 Foglio
Roma. Seppellita sotto la sabbia di qualche spiaggia estiva, la parola “scissione” è scomparsa dalla carambola di umori e di progetti, di tiepidi sussurri e dolorose fantasie che pure hanno alimentato le notti insonni del Partito democratico, “qualcosa a sinistra del Pd si costituirà sicuramente”, vaticinava Civati prima d’andarsene, “la scissione l’hanno fatta già gli elettori”, diceva il mesto Fassina, mentre al contrario, nei corridoi del Nazareno, nelle stanze ben arredate della Fondazione ItalianiEuropei, e insomma a casa D’Alema e a casa Bersani, ciò che resta di Botteghe Oscure già mostrava la sua immutabile natura, come l’idrogeno, l’elio, e le emozioni elementari che ordinano lo spirito dell’uomo di sinistra: coraggio compagni, prima o dopo vinceremo, nel 2017 c’è il congresso. Ed ecco allora la parola: congresso, la nuova febbre, il nuovo rullìo di tamburelli nelle notti – sempre insonni – del Pd, perché anche se manca un anno e mezzo al fatidico confronto con Renzi, già i telefoni trasmettono inviti, proposte, richieste, e s’avanzano candidature, in un’atmosfera un po’ confusa, forse precipitosa, che tutto evoca tranne esemplare beatitudine domestica: “Tocca a noi rispondere a chi chiede un altro Pd e un’altra sinistra”, dice il giovane Speranza. E Cuperlo: “La leadership di Renzi è fragilissima”.
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E proprio Speranza è uno dei candidati (non ancora candidati) a questo concorso, questo congresso che è già cominciato, questo talent show: “Avversario di Renzi cercasi” nella nuvola di correntine, capannelli e gruppetti che costituiscono la polifonica e non più disciplinata minoranza del partito (“per noi vale il principio del Talmud”, ha detto una volta l’ironico Enzo Amendola, “tre rabbini quattro sinagoghe”). E la candidatura di Speranza è quasi un’equazione algebrica, lo sanno tutti e infatti tutti lo aspettano al varco, visto che l’ex capogruppo dismesso da Renzi a Montecitorio si trova al centro geometrico tra il vecchio Bersani e il vecchio D’Alema che, pur distanti come sono, si tengono ancora insieme, in un legame ambientale, arredato con gli stessi mobili e gli stessi libri, in una falsa complicità basata sull’humus e non sulla ragione. Ma poiché tutt’intorno al trono di Renzi è da tempo iniziata una meccanica di scomposizione, decomposizione e ricomposizione del cosmo che fu comunista, tra antitesi, contraddizioni e amletismi, e poiché in sostanza non ci sono più disciplinate pedine di partito e di corrente, questo stesso mondo ha già prodotto anche la candidatura di Enrico Rossi, il presidente della Toscana che piace a Repubblica, uomo ragionevole, molto di sinistra eppure mai astioso con lo spavaldo e provocatorio Renzi: “Una mia candidatura a segretario del Pd? Perché no…”.
E’ insomma al congresso, al lontano, lontanissimo 2017 che tutti rivolgono pensieri e parole, ambizioni e aspettative in questo Pd che resta rinserrato in uno spazio gonfio di tensione sulla riforma del Senato e sull’opera del governo, “ma vedrete da qui in avanti saranno solo schermaglie. Nessuno vuole andare via, nessuno vuole rompere”, dicono gli amici di Renzi (ma anche quelli di Cuperlo). E’ dunque da qui, dicono, è dal partito, che bisognerà ripartire, non c’è altra sinistra all’infuori di questa, e insomma il congresso è già cominciato: cercasi segretario per sconfiggere Renzi. Animato è per esempio il sostegno ad Andrea Orlando, il ministro della Giustizia che può mettere insieme tutte le anime della sinistra, ma che da qualcuno è considerato cripto renzista, quasi un fiorentino sotto copertura. E infatti il desiderio raramente è felicità, quasi sempre tensione, sofferenza, divisione, coscienza del pericolo, come testimonia Nicola Zingaretti, il presidente del Lazio, il candidato più timido e promettente, con le sue larghe amicizie nella sinistra di Nichi Vendola e di Maurizio Landini, il più coperto e riluttante, lui che pure potrebbe federare la sinistra ulivista come fece Prodi, lui che è forse il più accorto, tattico, felpato tra gli aspiranti al ruolo di vendicatore in questa favolosa corsa alla riconquista del partito perduto. Tutto il contrario insomma di Michele Emiliano, simpatico governatore della Puglia, opzione grillina e tribunesca d’un congresso (o pre-congresso) che promette d’essere pirotecnico se davvero, come dicono, l’arruffato magistrato ex sindaco di Bari giocasse a stecca sul biliardo delle tessere e degli insediamenti meridionali, sulla solida vaghezza di una lega del sud che dentro il Pd già da qualche tempo lo vede andare in magica armonia con i presidenti democratici di Basilicata e Calabria, Marcello Pittella e Mario Oliverio, loro che assomigliandogli, per estetica e grammatica, si accompagnano ormai a Emiliano con vibrazioni d’amore e d’orgoglio.
Ed è così che il Pd si prepara al suo congresso più lungo, quello del 2017, sempre che non si voti prima, che non precipitino le elezioni anticipate e che allora la parola “scissione”, per calcolo e inquietudine, non torni a essere maneggiata senza cautela. Una crisi sulla riforma del Senato? Chissà. Può darsi che la questione del Senato eleggibile o non eleggibile sia, per i futuri destini della patria, altrettanto importante di quanto non fu, poniamo, la spedizione dei Mille o la guerra di Crimea, come sembra comunicare la disputa sino all’ultimo respiro tra maggioranza e minoranza del Pd. O può darsi, piuttosto, che tutto in realtà si riduca a uno scontro di caratteri e di potere tra Bersani e Renzi, tra Renzi e D’Alema, tra Speranza e Orlando, tra candidati più o meno ufficiali alla carica di segretario, in un rimando di specchi che allude al conflitto totale, allo sterminio, ma che è solo un gioco tattico, di minacce ponderate, di equilibri e di schermaglie, insomma quasi un congresso.
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