Come si racconta la corruzione a Roma senza ombre di moralismo e logiche da pool
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Gli occhi solitari di Cancogni miglior antidoto contro le cialtronate di Mafia Capitale
di Giuliano Ferrara | 02 Settembre 2015 ore 06:18
Basta leggerla. La famosa inchiesta sulla corruzione a Roma di Manlio Cancogni (1916-2015) non fu il prototipo dell’informazione scandalistica su Roma che abbiamo sotto gli occhi, fu il suo opposto simmetrico. Un’altra lingua, un altro occhio, un altro mondo. Siamo nella metà dei Cinquanta. Roma si espande con scarse regole o nessuna, ciò che è tipico dei miracoli economici. Sindaco è il democristiano Salvatore Rebecchini. Dominus dello sviluppo è il Vaticano con il suo braccio edilizio, l’Immobiliare, e l’appoggio delle famiglie proprietarie e imprenditoriali dell’unico vero settore industriale della città, quello delle costruzioni. Una oligarchia economica vicina alla curia romana e alla Dc, in cui opera fattivamente anche un nipote del Papa Pio XII, Marcantonio Pacelli, inventa gli strumenti finanziari e urbanistici dell’espansione o li piega all’interesse privato. Nascono quartieri di lusso, molto redditizi, e agglomerati accatastati alla rinfusa per ceti medio-bassi, si specula sul valore delle aree, gli strumenti dell’edilizia pubblica, l’Ina casa e l’Istituto per le case popolari, sono resi marginali dalla macchina dei profitti e delle rendite immobiliari.
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Nascono allora un forte disagio sociale nelle periferie o borgate, e rancori duri a morire. Si costruisce dove si può, dove conviene, e le tipologie di case, uffici, interi quartieri sono incuranti di una programmazione nel segno dell’interesse pubblico. Il paesaggio è sfregiato molto spesso e irreversibilmente. C’è tutto un meccanismo di valorizzazione del privato e del selvaggio, nel senso dell’abuso e della malapianificazione urbanistica, che accompagna la crescita della città, delle direttrici di marcia utili al compromesso tra le classi dirigenti dell’economia e della politica, e il Campidoglio mette i soldi pubblici delle opere di infrastrutturazione al servizio di un connubio opaco. Cancogni osserva che i dipendenti e dirigenti comunali – gli Odevaine di allora – guadagnano stipendi bassi, che contano poco e sono sollecitati a rigare diritti dai poteri forti dell’epoca. Sul sindaco Rebecchini l’autore dell’inchiesta, che in futuro rifiuterà per sé la palma di giornalista investigativo e ideologizzato, ha un atteggiamento elegante, di critica beninteso e di distacco dal suo eterno sorriso, ma senza alcuna particolare cattiveria o meschinità personalistica. Lo stile è legato alla descrizione di un fenomeno, non alla sua creazione artificiale, e il racconto è fatto di numeri, sono riportate le idee e le accuse degli oppositori in Campidoglio, il comunista Aldo Natoli e il liberal-radicale Leone Cattani. Chi scrive è un gran signore, un uomo di spirito allenato all’understatement, un giornalista che fa letteratura e un letterato che fa giornalismo in punta di coscienza personale e di curiosità civile.
L’inchiesta fu titolata provocatoriamente “capitale corrotta-nazione infetta”. Nonostante il suo tono prudente e allusivo, mai apertamente aggressivo, l’articolo ha grandi ripercussioni e il suo effetto è destinato a durare. Non si legge nella scrittura di scoperta e di narrazione l’intervento di magistrati politicizzati, la loro regia, non c’è l’affollamento dei luoghi comuni nell’èra della moltiplicazione tecnica delle balle, tra intercettazioni telefoniche, social media, televisione gridata, scorte, mitificazione e mistificazione del reale. Il giornalismo di critica politica e sociale comincia in modo esattamente opposto a come finisce. Non c’è ombra di moralismo, non c’è la logica dei pool o dei circhi mediatico-giudiziari, non c’è la corsa agli arresti, la caciara politicante, tutto al contrario.
Cancogni è i suoi occhi solitari, la sua capacità di decrittazione, è anche le sue remore, il suo scetticismo salubre che rompe la legge del silenzio con convinzione, sì, ma senza stridore di denti. Si sa, al quasi centenario outsider che ci ha lasciato, che non ha mai preteso di usare la letteratura o il giornalismo per cambiare il mondo, che ammirava De Gaulle e Churchill, che si era fatto antifascista e anticomunista per le stesse ragioni, che si poneva interrogativi da uomo libero sul lascito culturale del ventennio (“non era poi così male”), che sapeva come la vita privata e pubblica sia fatta anche di ghiribizzi, improvvisazioni, curve storiche bizzarre e difficili da interpretare, a Cancogni non piacevano l’enfasi, la ribalda sicurezza di tratto con cui tanti anni dopo si prese a bistrattare la realtà e a renderla conforme alle idiosincrasie e ai pregiudizi del Giornalista o dell’Intellettuale o dello Scrittore Collettivo. E il ghiribizzo più divertente è che l’inchiesta si apriva con il racconto della nascita di Vigna Clara, quartiere di lusso che occupò speculativamente ettari di prati a Roma nord. Lo stesso sito urbanistico in cui mezzo secolo dopo, seduto a una pompa di benzina, il Padrino di Mafia Capitale, er Cecato, discuteva della terra di mezzo con i suoi amici usurai.
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