Il Grasso e il Marino, le affinità elettive di due mosche al naso di Renzi
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Così l’ambizioso presidente del Senato e il sindaco avulso di Roma eccitano i sediziosi e infastidiscono il premier
Pietro Grasso e Ignazio Marino (foto LaPresse)
di Salvatore Merlo | 02 Settembre 2015 ore 06:18 Foglio
Roma. L’uno ha preso a danzargli di fronte come un moscone o un’inopportuna zanzara (“durerò a Roma fino al 2023 a meno che non cambiamo la legge. Se così fosse potrei andare fino al 2028”), l’altro rimane in bilico sui trampoli di mezze parole, elaborati silenzi, smentite allusive: “Sulla riforma del Senato guarderò solo le carte e prenderò la mia decisione in assoluta buona fede. Ma l’invito è a trovare una soluzione politica a quella che potrebbe essere una impasse”. E insomma, così diversi, eppure così simili – ciascuno di loro avendo raggiunto il suo insperato traguardo, quello di sindaco della capitale e quello di seconda carica dello Stato, grazie a una irripetibile congiunzione astrale che a Roma si chiamava Alemanno e a Palazzo Madama si chiamava Bersani – oggi Ignazio Marino e Pietro Grasso incarnano agli occhi di Matteo Renzi le due grane che tormentano il suo paesaggio politico, tra ostinazioni irte come scogliere e cavilli giuridici. E l’uno è per Renzi il disastro di Roma, mentre l’altro ha le sembianze sinistre di quella riforma del Senato che promette di avanzare con la levità di uno zoppo che corre. Dunque Marino non si toglie di mezzo dal pasticcio burino della Capitale, mentre Grasso sta in mezzo, come una sfinge, al pasticcio buffo che da giorni tiene legittimamente, eppure incomprensibilmente, appesa la riforma del Senato alla funzione di una preposizione, a una disputa procedurale sul significato delle parole “dai” e “nei” in un sottocomma di un subarticolo della legge, espediente formale su cui già almanaccano sino all’ultimo respiro maggioranza e minoranza del Pd, governo e opposizione.
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E così, più o meno consapevolmente, Grasso e Marino, Marino e Grasso, quasi diventano la strana coppia dell’anno, segno di uno squilibro e spia di un problema, perché in questo gioco d’interdizioni, di stramberie e di silenzi, entrambi accelerano il metabolismo degli avversari di Renzi: “Solo Grasso può riportare Renzi alla realtà”, ha detto Loredana De Petris, che è il capogruppo di Sel. Ed è insomma come se questo sindaco-medico e questo presidente-magistrato, l’uno con la sua fatale tendenza alla gaffe spaesata e l’altro con il piglio paludato e l’eloquio condiscendente, questi due numeri estratti a suo tempo dal pallottoliere di quella società civile che tanti lutti addusse al centrosinistra, d’improvviso accendessero speranze che sembravano tramontate (“sul Senato adesso si dovrà discutere”, dice Bersani). E loro due suscitano infatti intricati propositi di rivalsa, come lascia capire Stefano Fassina: “Marino deve resistere. Mi sembra di rivedere lo stesso film che Renzi ha girato con Enrico Letta”. L’uno senza grinta e forse senza nemmeno una piena consapevolezza, come una pianta, un’improbabile rampicante che a Roma impedisce il passaggio, l’altro installato alla presidenza del Senato come in una tana morbida e vellutata, Marino e Grasso diventano così due incongrui beniamini di quel mondo in difficoltà che a sinistra, qualche anno fa, un po’ per accarezzare la barba di Beppe Grillo e un po’ perché il Palasharp non è mai terminato, li volle eletti, nel marasma, l’uno in Campidoglio e l’altro in Senato, figli di quella società civile che ha fin qui avuto la qualità di corrodere ogni politico, anche d’ingegno, e perfino la bonomia di Bersani. E infatti loro sono ancora lì, mentre Bersani ha perso la segreteria del Pd.
E ovviamente, come sempre capita quando la politica raggiunge un elevato grado di confusa fermentazione, ciascuno di loro è adesso avvolto da chiacchiere e pettegolezzi, veri, falsi e verosimili. E dunque di Marino, al quale nessuno imputa mafia capitale, ma solo l’aver trasformato Roma in un perenne dopo partita con il Feyenoord (cioè qualcosa di non dissimile da una giungla o da una pattumiera), si dice sia quasi convinto d’essere la nemesi di Renzi, niente meno, l’uomo del destino, colui il quale ha saputo resistere al rottamatore muscolo flettente, l’unico insomma che dentro il Pd può batterlo (Augh!). Mentre a Grasso, che è stato un buon procuratore antimafia, con quella sua aria di bisonte mite che troppi guai non ha fatto, viene più realisticamente attribuito ogni genere di elevate o elevatissime ambizioni istituzionali. Con entrambi, al momento, Renzi adotta il rimedio classico per affrontare con finta serenità e autentico fastidio contrasti e antipatiche dichiarazioni che non mancheranno prima o poi di trasformarsi in rissa: ovvero, distogliersi dall’oggetto dell’antipatia, arrivando al punto di non sentirlo e, peggio ancora, simulando di non averlo neppure notato, avendolo seduto accanto. Mentre tra i renziani, qualcuno allarga le braccia, preferirebbe che si spegnessero tutte le candele piuttosto che tenerle accese sotto continuo ricatto. Elezioni, dunque: “Meglio una fine spaventosa che uno spavento senza fine”.
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