La riforma del senato è solo un pretesto per far fuori il governo (se ce la fanno
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L'unica riforma intelligente del senato sarebbe stata la sua abolizione pura e semplice
di Pierluigi Magnaschi Italia Oggi, 11.8.2015
L'unica riforma intelligente del senato sarebbe stata la sua abolizione pura e semplice. E non si vede perché Berlusconi, se vuole aumentare il suo consenso, non si batta per la sua abolizione e per una camera di 400 deputati (che potrebbero essere anche le metà e non cambierebbe nulla). Si vede che è appannato. La Camera alta è una complicazione inutile. Come però spesso accade nelle riforme italiane (che, quando va bene, vogliono riformare ma anche, nel contempo, mantenere) è stata invece realizzata una riforma stortignaccola. I difetti maggiori sono, essenzialmente, due. Primo difetto, gravissimo, il senato rimane ma scompare il diritto da parte degli italiani di eleggerlo. Secondo difetto, i futuri senatori saranno nominati, in prevalenza, dagli enti pubblici più screditati. E cioè dalle Regioni che, a rigor di logica, vista la loro cronica incapacità di gestire con un minimo di decenza i soldi pubblici, andrebbero abolite anch'esse. I consiglieri regionali e i sindaci tramutati in senatori sono come delle volpi inserite nel pollaio della spesa pubblica che a loro non basta mai. L'anticipo di questi comportamento si trova nel già esistente Consiglio stato-regioni che ha, al di là delle roboanti dichiarazioni, un solo obiettivo: quello di battere cassa. Cosa, questa, che gli riesce sempre.
Contro l'approvazione della riforma del senato, si sta mobilitando la minoranza Pd pilotata da Bersani che ha trovato, strada facendo, e come sembra, alcuni compagni di strada, altrettanto determinati, come Sel, Forza Italia, Lega e M5s. La pura strumentalità del voto contrario viene dalla minoranza Pd (che, non a caso, nei precedenti passaggi, aveva votato a favore della riforma del senato) e da Forza Italia che aveva sostenuto, fin dall'inizio, e votato più volte a favore, la riforma costituzionale di cui si sta trattando. Sono convinto, stante la strumentalità della loro posizione, che coloro che oggi si aggrappano alla necessità di introdurre il voto per eleggere i senatori, si sarebbero battuti contro questa soluzione qualora essa fosse già stata presente nella riforma.
Come mai questo tardivo ripensamento? È molto semplice rispondere. La minoranza Pd si è accorta che Matteo Renzi, nonostante tutti gli ostacoli che gli vengono frapposti, procede come un treno, determinato a realizzare il suo programma che ha per obiettivo finale (nessuno lo dice, ma questo è il suo punto di arrivo) l'eliminazione della minoranza Pd e del suo mondo ideologico e procedurale (per i bersaniani l'importante è discutere, non realizzare; non ci sono mai obiettivi indifferibili perché tutto può essere rinviato in attesa di intese più vaste). Un mondo, questo, che ormai è diventato incompatibile con lo sviluppo del paese nella stagione della mondializzazione che impone visioni e ritmi che sono incompatibili con i riti delle sezioni Pd con annessa bocciofila (peraltro sempre meno frequentate da un popolo in via di estinzione, se non altro per ragioni anagrafiche).
Il rischio dell'annientamento della componente bersaniana si è acuito, nella percezione dei bersaniani, con le defezioni dal Pd di alcuni suoi componenti di punta come l'ex segretario della Cgil, Sergio Cofferati, nonché di Pippo Civati e di Stefano Fassina. Il primo se ne è andato perché si è, in pratica, trovato fuori dalla porta del Pd dopo le primarie per la candidatura alla presidenza della Regione Liguria da lui clamorosamente perse. Gli altri due invece, capendo che il gioco contro Renzi è perso, e non essendo ancora, grazie alle loro più giovane età, delle cariatidi del Pd, abituate a ottenere delle deferenze per partito preso, e alle comodità fideistiche del potere senza le difficoltà per mantenerlo, hanno scelto di uscire dal Pd e di proseguire la loro battaglia in campo aperto, giocando una scommessa che è sicuramente molto rischiosa ma dimostrando anche di essere gente disposta a mettersi in gioco senza porsi al riparo delle rendite di posizione del Pd che peraltro sono sempre più erose da un tempo in cui nemmeno la Chiesa può più permettersi di essere una chiesa.
Da qui la battaglia finale. Che è quella che si svolgerà a settembre in occasione del voto sulla riforma del senato. Una battaglia-pretesto, come dicevo. Non solo per la minoranza Pd ma anche per Forza Italia che si aggiunge alla minoranza Pd, nella speranza di far saltar il banco (e, con esso, il governo Renzi) su una riforma che è stata anche farina del suo sacco per i tre quarti del suo lungo e complicato percorso parlamentare. Quest'ultima posizione di Berlusconi dimostra infatti che il Cavaliere aveva fatto approvare dai suoi la riforma del Senato, nei suoi passaggi precedenti, non perché credesse in essa (tant'è che adesso la boccia) ma solo perché gli conveniva occasionalmente, per motivi transeunti, di pura convenienza politica. Venuti meno questi ultimi, crollano anche i convincimenti (che evidentemente non erano tali) di Berlusconi.
Ben più limpida e chiara invece è la posizione contraria di M5s, Lega e Sel che, avendo combattuto sin dall'inizio (anche se per motivi diversi) la riforma costituzionale del senato, non fanno che proseguire nella loro lotta anche nella imminente tappa del voto del prossimo mese di settembre
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