Cosa rischia Renzi se sceglie di mettersi nelle mani della ditta. Ecco cosa può provocare documento che contiene le condizioni
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poste dalla minoranza del Partito democratico per concorrere all’approvazione della riforma costituzionale che abolisce il bipolarismo perfetto
di Sergio Soave | 03 Luglio 2015 ore 13:12 Foglio
Il documento che contiene le condizioni poste dalla minoranza del Partito democratico per concorrere all’approvazione della riforma costituzionale che abolisce il bipolarismo perfetto ha il pregio di passare dal mugugno alla proposta, il che rende possibile una discussione nel merito, ma ha anche il difetto di partire da un giudizio sulla legge elettorale che richiederebbe vistosi bilanciamenti proprio nella configurazione della Camera alta. Il punto più rilevante è passare dall’elezione di secondo grado all’elezione diretta dei senatori “in concomitanza, cioè contestualmente alle elezioni regionali”. A parte qualche problema tecnico, legato al fatto che i tempi delle elezioni regionali sono tra loro sfalsati, il che non consentirebbe l’insediamento del nuovo Senato in modo simultaneo, si presenta il rischio (che forse è proprio l’intenzione dei firmatari del documento) che l’ampliamento delle funzioni di garanzia e di controllo di un Senato eletto con la proporzionale quasi pura faccia rientrare dalla finestra i difetti paralizzanti del bicameralismo perfetto usciti dalla porta.
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Altre perplessità suscita l’insistenza sulla volontà di dare carattere costituzionale alla legge elettorale per il Senato, in base alla convinzione che altrimenti la maggioranza della Camera potrebbe sempre cambiarla a vantaggio del partito al governo. I costituenti hanno fatto benissimo a lasciare fuori dalla Carta i sistemi elettorali e non si vede perché bisognerebbe cancellare quella saggia decisione solo per diffidenza preventiva nei confronti del proprio partito. Non si correggono invece gli eccessi di potere del Senato delle regioni sulla materia dei poteri locali, compreso il finanziamento, che essendo derivato dovrebbe essere invece controllato dallo Stato che lo eroga, altrimenti l’irresponsabilità della spesa locale e regionale non avrà più limiti (ma questa era una contraddizione già presente nel testo approvato in prima lettura).
Al di là delle questioni di merito, quella che il documento della minoranza mette sul tavolo è una specie di piattaforma politica: Matteo Renzi deve fare ammenda per aver fatto approvare l’Italicum contro il parere della minoranza interna e può proseguire il percorso riformatore solo se si sparge il capo di cenere e accetta di dare alla riforma del Senato il carattere di una ammenda politica. Ora Renzi dovrà scegliere se restare prigioniero della Ditta o smarcarsi cercando intese parlamentari su un orizzonte più ampio, accettando le idee ragionevoli, come quella dell’elezione diretta dei senatori, e respingendo quelle palesemente provocatorie come la costituzionalizzazione della legge elettorale. Quello che vogliono imporgli, ci sembra, è una sorta di ammissione del carattere poco democratico della sua azione riformatrice, che poi porterebbe a una sorta di sottomissione all’arbitrato (e all’arbitrio) della minoranza. Peggio che subire una sconfitta parlamentare, eventualità basata sull’aritmetica ma non sulla politica, tanto è vero che i campioni della minoranza del Pd la minacciano sempre ma non la portano mai fino in fondo.
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