Contro il sindacato tasse, ideologia e sciopero. J’accuse di Furlan
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Il rapporto con la Cgil, le lettere con Camusso, il “partito” di Landini il “come” rappresentare giovani e precari
La leader della Cisl, Annamaria Furlan (foto LaPresse)
di Marianna Rizzini | 24 Giugno 2015 ore 10:52 Foglio
Roma. Una lettera intercettata da Repubblica, un’intervista di risposta, e due donne sindacaliste con modi, toni e approccio diversissimi: una rocciosa e poco incline ai salamelecchi, come si addice ai marinai (Susanna Camusso, leader Cgil e velista per passione); l’altra pacata e controllata come si addice a chi, trent’anni fa, decise di militare dal lato della Dc quando i giovani più “rivoluzionari” militavano nella sinistra (Annamaria Furlan, leader Cisl che nei Settanta vedeva nella “base” dc un modo per mantenere la sua “indipendenza di pensiero”, come ha detto mesi fa all’Espresso, intervistata da Stefania Rossini). Si sono parlate a distanza, in questi giorni, Susanna Camusso e Annamaria Furlan, e si incontreranno quanto prima (anche con la Uil di Carmelo Barbagallo), per discutere di come aggiornare ai tempi l’opera del sindacato, istituzione che, per molti versi, sembra aver bisogno del cosiddetto “tagliando”. “Divisi perdiamo”, ha scritto Camusso all’indirizzo della Cisl e della Uil, nella lettera poi anticipata da Repubblica; “le nostre divisioni non sono politiche, riguardano il merito sindacale”, ha risposto Furlan.
Da fuori, però, e non da oggi, appare evidente una crisi del sindacato nel suo complesso, al di là delle sigle. Non tanto crisi numerica, quanto di identità, di direzione: anche il sindacato deve cambiare se non vuole svuotarsi e tramutarsi in pura testimonianza del passato. Ma non è neppure una questione di “ricambio generazionale” interno. Piuttosto è una questione di campo d’azione (tempo fa, su questo giornale, era stata sollevata la questione “sindacato dei giovani e dei precari”, categorie magmatiche e non tutelate in senso classico, a livello concertativo). Furlan, sindacalista da trent’anni e donna appartenente alla generazione cresciuta con l’idea del “posto fisso”, non nega il problema, anzi: “Pur partendo dal dato oggettivo – le tessere della Cisl quest’anno in crescita e proprio nella categoria degli attivi, quindi non dei pensionati, ma nel terziario, nel commercio, tra i bancari – si può percepire, in parte, una certa disaffezione, un certo affievolimento nella fiducia. C’è bisogno di intercettare un bisogno di rappresentanza nel campo del lavoro atipico, discontinuo. E ci sono categorie che ora hanno bisogno di essere tutelate: giovani e precari innanzitutto. Dobbiamo allora chiederci se l’organizzazione sindacale sappia rappresentare, oggi, queste flessibilità. Il futuro del sindacato si gioca anche su questo. Rappresentare il mondo del lavoro come abbiamo fatto finora non basta più”.
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Uscita da un convegno della Fns Cisl sulla “sicurezza globale per lo sviluppo e la legalità”, presente il ministro dell’Interno Angelino Alfano, in cui si è sancita, entro il 2017, l’affiliazione alla Cisl del Siulp, uno dei sindacati maggioritari nella polizia), Annamaria Furlan, che oltre a fare la sindacalista ha lavorato felicemente alle Poste (un lavoro che le permetteva di conciliare famiglia, professione e assemblee, ha detto all’Espresso), dice che “sono risposte positive rispetto al tema della precarietà anche la discussione sul contratto a tutele crescenti e l’aggiornamento del modello contrattuale con decontribuzione collegata alla produttività e rafforzamento della contrattazione di secondo livello. Anche questi sono modi per mettere al centro i giovani e dare continuità al lavoro dei giovani”. E’ chiaro che il giudizio sul Jobs Act di Furlan diverge da quello di Camusso: “Per leggere e interpretare il mercato del lavoro”, dice la leader Cisl, “ci vuole meno ideologia e più pragmatismo. Quasi centomila assunti tra i precari sono un buon risultato. Il tema non è il rapporto con la politica, ma la logica e la strategia sindacale: tutto ciò che stabilizza il lavoro deve essere tenuto in considerazione senza pregiudizi ideologici da un sindacato che fa il suo mestiere”.
Susanna Camusso, nell’autunno scorso, lamentandosi di Matteo Renzi (“è come Margaret Thatcher”), diceva di essere stata ricevuta dal premier “cinque minuti” nell’anticamera della Sala Verde, tradizionale luogo di incontro governo-parti sociali. Furlan, che nello stesso periodo vedeva in Renzi “il grande limite dell’autosufficienza”, non si è discostata dalla linea del pragmatismo. Neanche nei giorni difficili del “no” allo sciopero generale (a differenza di altri sindacati). In un momento grave per il paese, diceva Furlan, “c’è bisogno di un patto sociale con chi il lavoro lo rappresenta”. Oggi dice: “Abbiamo bisogno di soggetti responsabili: dobbiamo far uscire il paese dalla crisi, abbiamo tre milioni e mezzo di disoccupati”. E Maurizio Landini che, dalla Fiom, si mette alla testa della futuribile “Coalizione sociale” non le sembra un buon viatico per un’azione sindacale che abbia “obiettivo e azione comune”: “La Coalizione sociale è la premessa di un nuovo partito, ma il sindacato non deve inseguire la politica, porsi come subalterno alla politica. Anzi deve indirizzarla, se può, avendo pari dignità”. Nel rapporto con la Cgil, dice Furlan, ci sono alcuni “obiettivi comuni realizzabili: il rinnovamento del modello contrattuale, puntando anche sulla produttività; la detassazione della produttività; la modifica della peggiore riforma pensionistica europea, ovvero la riforma Fornero, e, attraverso un fisco non penalizzante, l’aiuto alla ripresa”.
Se si chiede a Furlan se esista, oggi, un rischio di “pensiero unico” che lei, da giovane, pensava di aver schivato militando nella Dc invece che nel Pci, Furlan risponde che c’è “un rischio di pensiero unico sui soggetti del ‘no’ più che sulle reali proposte: a ogni accenno di iniziativa su opere infrastrutturali di cui il paese ha bisogno sorgono immediatamente i comitati del no”. Anche sugli scioperi generali, e sugli “autunni caldi”, il rischio di pensiero unico è alto. “Scioperare contro la crisi? Mah. Lo sciopero va usato per obiettivi precisi, altrimenti è uno strumento spuntato. E la crisi ha bisogno di patti sociali. L’ha detto anche Papa Francesco a Torino: patto sociale e generazionale per creare lavoro”.
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