Consigli al governo per non sprecare lo slancio euroriformatore
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Oltre Tsipras e il suo ottimismo su un’intesa. Le idee renziane sull’euro vs. i silenzi del duo Merkel-Hollande
di Andrea Garnero | 27 Maggio 2015 ore 17:07 Foglio
Nel maggio di cinque anni fa la Grecia riceveva il primo programma di salvataggio e l’Unione europea varava il Fondo salva stati. Mentre gli Stati Uniti sono praticamente tornati a livelli di disoccupazione pre-crisi, noi, Europa, siamo ancora vivi, ma più divisi e più deboli, economicamente, politicamente e militarmente. Mercoledì il premier greco, Alexis Tsipras, affermava che Atene è vicina a un accordo con i suoi creditori. Fatto sta che la crisi ci ha debilitato e per riprenderci non bastano le riforme (condizione comunque necessaria), ma serve un salto di qualità nel modo di governare l’economia europea. I contributi che i vari paesi stanno portando alla riflessione sul futuro dell’Unione economia e monetaria che Juncker, a nome anche di Draghi, Tusk e Dijsselbloem, deve sottoporre al vertice di fine giugno e che da domenica stanno uscendo sulla stampa europea dimostrano che nonostante le mazzate che abbiamo preso la lezione non è ancora stata imparata.
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Il documento italiano anticipato dal Foglio ha l’ambizione di chiedere quel salto alla governance economica per andare oltre una più o meno flessibile gabbia di regole e dotare l’Unione di strumenti minimi di bilancio. Il documento è anche abbastanza dettagliato – otto pagine rispetto alle tre franco-tedesche – e con un vocabolario non tipicamente renziano: da Telemaco siamo passati alla “fiscal capacity”, dall’Europa del selfie alla “cooperazione rafforzata”, dalla svolta buona alla “persistente bassa crescita”. Quello spagnolo (nella lettura datane dal El Paìs) va anche oltre e chiede un mandato più ampio per la Banca centrale europea che tenga meglio in conto le differenze tra paesi e gli Eurobond. Invece quello franco-tedesco, che per la forza dei firmatari influirà parecchio nella negoziazione, è già di per sé il risultato di un compromesso al ribasso, in cui si leggono chiaramente i veti reciproci: non è neanche più prevista la figura di un presidente permanente dell’Eurogruppo, una sorta di ministro delle Finanze europeo, proposta storica di Schäuble per avere un controllo vero ed ex ante dei bilanci nazionali. E lo schema di base preparato dallo sherpa di Juncker, pubblicato dal Financial Times, fa capire che si parte con ambizioni minime.
Il documento dei Quattro Presidenti del 2012, cui quello di Juncker deve dare seguito, delineava già tutte le tappe principali, ma oltre metà delle proposte sono rimaste lettera morta. Non sono le idee che mancano, ma la forza di metterle in pratica: in un’Unione ritornata più che mai intergovernativa “si sa bene cosa fare ma non si sa come farsi rieleggere dopo averlo fatto” (Juncker dixit, ma test empirici seri hanno dimostrato che non è vero: i governanti che fanno riforme sono rieletti). La discussione parte in salita ma ci sono comunque tre occasioni da sfruttare che fanno sperare che non tutto sia perduto. La prima è la forza politica di Juncker: il presidente della Commissione ha idee, è autonomo e sfrontato (forse un po’ troppo a volte) e si è imposto lo scorso anno contro la volontà dei leader che avrebbero preferito qualcuno di più malleabile. In sei mesi, ha lanciato l’idea del piano di investimenti o quello per i rifugiati senza chiedere a nessuno, e ha dato il via libera a inchieste contro Gazprom e Google senza remore. Altro che la supina intergovernatività di Barroso. E’ l’unico che può almeno provare a lanciare un piano ambizioso per il futuro dell’Unione. Però ci deve provare. La seconda opportunità è il referendum inglese di David Cameron. E’ l’occasione per sedersi intorno a un tavolo e ridiscutere il pacchetto completo. Fa paura e non sarà facile. Ma è l’occasione per fare ciò che si è rimandato negli anni scorsi tirando la legge europea oltre i limiti. A un passo indietro del Regno Unito, deve corrispondere un passo avanti degli altri paesi. L’Europa a due velocità di cui si torna a parlare è già un fatto per la moneta unica, per Schengen, perfino per la Carta dei diritti fondamentali. Il documento di Palazzo Chigi posiziona l’Italia nella corsia veloce, bisogna però percorrerla con decisione perché come in autostrada andare piano nella corsia veloce è molto pericoloso.
Infine, al di là del lavoro tecnico, il futuro dell’Unione economica e monetaria è una Chefsache, una questione per i leader, come dicono in Germania. Il terzo elemento favorevole, quindi, è il cambio di attitudine della leader maxima, la Merkel. Dopo la terza elezione ci sono indizi di un cambio di attitudine (la Merkel di una volta avrebbe già perso la pazienza con la Grecia di oggi), ma il paper franco-tedesco rappresenta una zavorra notevole alla negoziazione. Le belle idee italiane e spagnole quindi rischiano di rimanere lettera morta e il documento di Juncker di essere meno ambizioso di quello di tre anni fa. A meno che Renzi lo prenda come una Chefsache e giochi la partita con la stessa determinazione con cui ha giocato la riforma elettorale o le elezioni regionali. L’ultima e unica volta che Renzi ha voluto imporre la sua linea all’Europa, forte del 40,8 per cento, ha fatto rinviare un Consiglio europeo sulle nomine già chiuso e incassato la vittoria con la Mogherini al secondo round. Poi, nonostante il semestre di Presidenza, non si sono più viste fiammate del genere. Ora, di fronte al documento di Hollande e Merkel, quanto e su quali battaglie del paper pubblicato dal Foglio Renzi vorrà davvero spendersi? Per esempio, l’idea di una forma di capacità fiscale (senza per forza arrivare al sussidio europeo di disoccupazione) è seria o è messa lì tanto per dire? Forse questo è il punto meno chiaro del documento (e della strategia) di Palazzo Chigi: non si capisce se sia Chefsache o “solo” un contributo intellettuale.
Categoria Italia