Ginepraio. Gli agricoltori non sono tutti uguali, così come i motivi delle loro proteste
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I membri del settore primario manifestano per ragioni eterogenee e spesso prive di una linea di continuità. Le politiche europee sono solo un pretesto dei governi per trasformare le rivolte in consensi.
2.2.2024 Fabrizio Fasanella, linkiresta5’l
In Italia, l’unica certezza che abbiamo sono i cortocircuiti dell’esecutivo e di Coldiretti
Le proteste degli agricoltori europei ribadiscono due lezioni banali solo all’apparenza. La prima è che il legame tra il cibo e l’ambiente è indissolubile, nonché una delle chiavi per mitigare gli effetti della crisi climatica; la seconda è che quando i temi sono così frammentati a livello nazionale non esiste il «bianco o nero». Non è furberia, non è opportunismo, ma ammettere di essere piccoli dinanzi alla complessità di un settore, quello primario, fondamentale per decarbonizzare il nostro sistema produttivo. Nel 2019, stimava l’Agenzia europea dell’ambiente, l’agricoltura era responsabile del 10,55 per cento delle emissioni di gas serra nell’Unione europea.
Il riscaldamento globale è un problema non solo attuale, ma anche sulla via del peggioramento: due condizioni che impongono un certo senso d’urgenza nell’affrontare l’emergenza. Fatta questa premessa, i punti su cui soffermarsi per capire le reali difficoltà degli agricoltori europei – che non sempre corrispondono agli slogan sbandierati durante le manifestazioni – sono due: le modalità e i tempi di attuazione della transizione verde, da cui nasce un argomento inerente ai costi.
Dopo decenni e decenni di benefici, sussidi europei e agevolazioni, gli operatori del settore primario hanno subìto contemporaneamente le conseguenze della guerra in Ucraina – punto di riferimento per l’esportazione di grano –, dell’inflazione e del cambiamento climatico. Quest’ultimo, tra fenomeni siccitosi ed eventi meteorologici estremi, nel 2022 e nel 2023 si è rivelato più concreto che mai anche in Europa.
Gli agricoltori concepiscono le novità green introdotte dall’Unione europea come un’ulteriore minaccia, o addirittura come un colpo di grazia, spesso senza rendersi conto che i rischi più reali sono gli effetti del riscaldamento globale e le politiche miopi dei governi nazionali. Il filo rosso (o, per meglio dire, verde) delle proteste rimane quindi il Green deal, ossia il pacchetto di misure dell’Ue pensato per ridurre le emissioni nette di gas serra di almeno il cinquantacinque per cento (rispetto ai livelli del 1990) entro il 2030, nella speranza di raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050. Uno degli strumenti per spuntare questi obiettivi, al centro delle manifestazioni, è la Pac (Politica agricola comune) 2023-2027.
Ambizioso ma ormai depotenziato, il Green deal è diventato il capro espiatorio della politica e delle grandi associazioni di categoria per cavalcare le proteste, strumentalizzarle e trasformarle in consensi. Le “rivolte dei trattori”, però, si fondano su ragioni molto più sfaccettate e difficili da mettere in fila, in quanto diverse a seconda delle norme nazionali e del numero di sigle sindacali presenti in ciascun Paese.
In Italia le contestazioni sono state innescate dall’abolizione – voluta da Giorgia Meloni – dell’esenzione Irpef per il settore agricolo:
«Questa misura non ha beneficiato le piccole imprese con terreni di estensione ridotta e reddito basso, quindi rischiava di diventare un privilegio e non un aiuto diffuso», ha detto la presidente del Consiglio. Un altro motivo alla base della protesta italiana, ma presente anche negli altri Paesi europei, riguarda l’aumento dei costi del carburante agricolo e l’assenza di aiuti per rimediare a questi rincari.
Di recente, il governo di centrodestra ha anche eliminato l’esenzione contributiva di due anni per i giovani imprenditori agricoli (under quaranta) e reso l’assicurazione contro gli eventi meteorologici estremi obbligatoria. Si tratta di misure che, secondo chi protesta, rischiano di gravare ulteriormente su un settore già in difficoltà, soprattutto se parliamo delle attività più piccole e non intensive. Come ha scritto Gianfranco Pellegrino sul quotidiano Domani, il ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, si sta mostrando «amico dei trattori e nemico degli agricoltori».
Sugli striscioni, inoltre, si leggono frasi contro il libero mercato, l’agrivoltaico, la farina di grillo, la carne coltivata in laboratorio e altre “innovazioni alimentari” potenzialmente necessarie, ma bocciate in partenza – per ragioni puramente ideologiche – da Meloni, Salvini e Lollobrigida, che spesso si sono schierati dalla parte dei manifestanti.
Difficile, quindi, trovare una linea di continuità nelle proteste degli agricoltori italiani: in parte criticano l’operato del governo, in parte ne ricalcano le posizioni e le idee. E anche sull’Europa non c’è un’opinione comune. L’unico punto di contatto è tanto concreto quanto generico, e riguarda i costi. In questo contesto c’è poi la Coldiretti che punta il dito contro l’Ue, nascondendosi dietro la missione “meloniana” di difendere a tutti i costi il Made in Italy. Una buona parte degli agricoltori – soprattutto i piccoli-medi – si è però scagliata contro l’associazione presieduta da Ettore Prandini, le cui bandiere sono state bruciate durante una protesta a Viterbo.
Lollobrigida ha condannato l’accaduto, applaudendo la Coldiretti per «la battaglia contro il cibo sintetico che l’Italia sta guidando anche in Europa con risultati eccezionali». Ma ieri, 1 febbraio, si è diffusa la notizia della bocciatura del Ddl contro la carne sintetica da parte della Commissione europea. Quest’ultima ha chiuso la procedura «Tris» relativa al provvedimento del ministro dell’Agricoltura, dicendo che Roma ha sostanzialmente violato il diritto comunitario.
«L’Unione europea vuole sacrificare produzioni alla base della dieta mediterranea, ritenute meno importanti pur di portare avanti la propria irrealistica proposta di dimezzare l’uso di fitofarmaci», si legge invece nel comunicato in cui Coldiretti annuncia la sua adesione alle proteste avvenute ieri a Bruxelles in occasione del consiglio europeo. Ma a novembre, in realtà, il Parlamento europeo aveva respinto il progetto legislativo – elemento cardine del Green deal – volto a dimezzare l’uso dei pesticidi entro il 2030. L’uso del glifosato, l’erbicida più usato al mondo, è stato prolungato per altri dieci anni.
Troppo facile, insomma, prendersela con un Green deal a tratti irriconoscibile rispetto alla proposta iniziale, che comunque si basa su un principio sacrosanto: rendere l’agricoltura dell’Ue più sostenibile da ogni punto di vista. Come? Abbandonando gradualmente le fonti energetiche fossili, risparmiando risorse idriche, non abusando dei pesticidi e smettendo di inseguire ostinatamente le logiche della grande distribuzione. Le “norme green”, anche se sgonfiate dagli interessi delle lobby del settore, ribadiscono la necessità di cambiare modello produttivo e sono, sulla carta, la risposta economicamente più conveniente al clima che cambia.
La stessa Ue, il 31 gennaio, ha fatto un significativo passo avanti verso chi protesta, modificando le regole per avere accesso ai fondi della Politica agricola comune (386,7 miliardi di euro). Al posto di lasciare incolto il quattro per cento dei campi per stimolare la biodiversità e ripristinare la natura, gli agricoltori potranno coltivare piante non invasive sulla terra (per esempio lenticchie e piselli) o puntare sulle colture a crescita rapida. Si tratta di una deroga che dovrà essere approvata dal Consiglio dell’Unione europea.
Bruxelles, per placare le tensioni, ha anche deciso di mettere in pausa le trattative per l’accordo di libero scambio con il Mercosur, il mercato comune dell’America Latina che comprende il Brasile, l’Argentina e il Cile. Anche Gabriel Attal, primo ministro francese, ha teso una mano verso i contadini, annunciando la fine progressiva delle tasse sul diesel per i veicoli agricoli e lo snellimento di alcune procedure burocratiche; Parigi, inoltre, ha promesso più sostegno fiscale e misure contro la concorrenza sleale dei Paesi extraeuropei (non obbligati a rispettare gli standard di Bruxelles).
I cedimenti della politica, al momento, non si stanno rivelando sufficienti. Le proteste non solo stanno continuando, ma si stanno intensificando. Ieri a Bruxelles più di mille trattori hanno occupato il quartiere europeo, lanciando uova contro i palazzi, appiccando roghi e abbattendo una statua di John Cockerill, pioniere dell’industria siderurgica e ferroviaria belga. In Francia ci sono stati scontri con la Polizia e circa cinquanta arresti. In Grecia i mezzi agricoli hanno bloccato le strade di Salonicco, ottenendo la solidarietà dei pescatori. In Italia le contestazioni sono state meno aggressive, ma stanno aumentando in termini numerici e di intensità: ieri, ad esempio, alcuni trattori sono entrati a Milano per poi dirigersi verso il Pirellone.