Fatevi una domanda. L’eterno ritorno dello scontro politica-giustizia è figlio del bipolarismo

Prendere parte alla rissa invece di domandarsi le ragioni sistemiche per cui continua a scoppiare all’avvio di ogni santa legislatura, da trent’anni filati, è peggio che inutile. È dannoso, ma soprattutto inutilmente noioso

28,11,2023 Francesco Cundari, linkiesta.it lettura3’

Il gigantesco conflitto d’interessi, l’estrema personalizzazione e soprattutto la radicale privatizzazione della politica che Silvio Berlusconi ha portato con sé, con la sua celebre discesa in campo all’inizio degli anni Novanta, non hanno accecato soltanto lui, che anzi, a dire la verità, ci ha sempre visto benissimo, e infatti negli ultimi trent’anni ha saputo curare benissimo i suoi affari e i suoi piaceri. Tutto questo, semmai, ha accecato gli avversari. E la cosa notevole è che ancora li acceca, come dimostra il dibattito innescato dalle dichiarazioni del ministro della Difesa, Guido Crosetto, che ha denunciato una specie di mezzo colpo di stato, ordito da una parte della magistratura, sulla base di semplici «si dice» e «mi hanno raccontato».

Accecati dal ruolo abnorme assunto da Berlusconi e dalle sue vicende personali, per trent’anni, a sinistra, ci siamo raccontati che il problema della giustizia in Italia fosse, sostanzialmente, un problema suo. Non solo nel senso che i problemi da lui strumentalmente agitati non esistessero affatto, ma anche nel senso che senza di lui l’intero conflitto tra politica e magistratura non sarebbe neanche cominciato.

Del resto, si sosteneva con fondate ragioni, tanto la Lega di Umberto Bossi quanto il Movimento sociale italiano (poi Alleanza nazionale) di Gianfranco Fini erano, fino a un minuto prima dell’arrivo di Berlusconi (e della loro alleanza con lui), partiti fieramente giustizialisti, fanaticamente schierati a sostegno della magistratura, e specialissimamente della magistratura che indagava la politica. Altro che garantisti: erano quelli che ai tempi di Mani Pulite sventolavano i cappi in Parlamento e assediavano le Camere gridando «siete circondati». Cose che i famigerati giustizialisti di sinistra non si erano mai sognati di fare.

Scomparso Berlusconi e arrivati a Palazzo Chigi gli eredi del Msi-An, si sarebbe dunque potuto pensare che sarebbe scomparsa anche la trentennale contrapposizione tra politica e magistratura. E invece, come si vede, sono cambiati gli attori sulla scena, ma il copione è rimasto identico. Come mai? Come si spiega questo mistero?

Evidentemente tra 1993 e 1994, nel momento in cui Berlusconi entrava in politica e fondava la coalizione di centrodestra, succedeva anche qualcos’altro. Qualcosa di cui la stessa iniziativa berlusconiana era la conseguenza, non la causa.

Sto parlando ovviamente del referendum che cancellava la vecchia legge elettorale proporzionale e promuoveva di fatto il sistema maggioritario (in modo che per la verità avrebbe dovuto essere giudicato incostituzionale, distorcendo evidentemente la funzione abrogativa dei referendum, ma non voglio farla lunga) e in particolare quell’obbrobrio, sconosciuto a qualsiasi democrazia occidentale, del bipolarismo di coalizione.

Il fatto è che la scelta di entrare nel gruppo di testa dell’Unione monetaria europea nonostante l’altissimo debito pubblico, all’inizio degli anni Novanta, rendeva necessaria una radicale riscrittura del compromesso sociale su cui si era retta la Prima Repubblica. In quel momento più che mai avremmo dunque avuto bisogno di forze politiche in grado di scomporre lobby, consorterie e coalizioni di interessi attraverso un gioco di alleanze politiche e sociali spregiudicato e fuori dagli schemi. Proprio in quel momento ci impiccavamo invece al bipolarismo di coalizione, costringendo tutti i partiti nei due poli di centrosinistra e centrodestra, i quali a loro volta si dividevano tra loro la rappresentanza dei diversi blocchi di interessi così com’erano, accrescendone di conseguenza il peso relativo all’interno di ogni schieramento.

Fino a quando il sistema promuoverà una simile ingessatura dello spettro politico non usciremo dallo stallo.Vuoi perché, diversamente da altri paesi con una più lunga storia democratica e una diversa cultura politica, semplicemente non disponiamo di due classi dirigenti alternative e intercambiabili (e dunque lo spoils system finisce per sommare al massimo dello scontro e della delegittimazione pubblica il massimo del trasformismo e del consociativismo sottobanco), vuoi perché non siamo capaci di giocare secondo simili regole, e infatti finisce sempre che il governo “eletto” direttamente (sarebbe incostituzionale anche questo, ma non divaghiamo) va a sbattere dopo neanche due anni, mediamente, e ogni volta per uscirne tocca rimettere in piedi in fretta e furia grandi coalizioni e governi tecnici, però appunto sempre come eccezione giustificata dall’emergenza, con tutte le distorsioni del caso, e destinata comunque a esplodere all’approssimarsi della successiva campagna elettorale (con il ritorno del vincolo bipolare).

Nessuna ragionevole ed equilibrata riforma della giustizia, e più in generale nessuna ragionevole ed equilibrata ridefinizione dei rapporti tra i poteri, a cominciare dal rapporto tra potere esecutivo e potere giudiziario, sarà mai possibile, e nemmeno pensabile, finché non ci decideremo a scendere da questa giostra impazzita. Prendere parte alla rissa invece di domandarsi le ragioni sistemiche per cui continua a scoppiare all’avvio di ogni santa legislatura è peggio che inutile. È dannoso, ma soprattutto inutilmente noioso.

Più utile, in vista della discussione sulle pseudo-riforme istituzionali promosse dal governo Meloni, sarebbe articolare una riflessione e una posizione politica che si ponessero almeno il problema di spezzare questa trentennale maledizione. Ma a giudicare da quel che si legge sui giornali, anche riguardo al dibattito interno al Pd e ai suoi infaticabili riformisti, già pronti a intavolare il centesimo dialogo sulla millesima riforma incentrata sul sistema maggioritario, c’è poco da essere ottimisti.

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