L’Italia e le demolizioni delle leadership spiegate con “Sully” di Clint Eastwood

Che responsabilità ha il cinema italiano nella promozione di una retorica dello sfascio? Parliamone

di Claudio Cerasa 10 Dicembre 2016 alle 06: Foglio

Per capire qualcosa di più rispetto a un tratto particolare del nostro paese, emerso con chiarezza lo scorso 4 dicembre al termine dello scrutinio del referendum costituzionale, bisogna prendersi due ore di tempo, andarsene al cinema, mettersi comodi e guardare con attenzione i dettagli di “Sully”, l’ultimo film di Clint Eastwood.

La relazione tra “Sully” e l’esito del referendum costituzionale non c’entra nulla con la storia dell’ammaraggio miracoloso del volo US Airways 1549 avvenuto il 15 gennaio 2009 nel fiume Hudson (per capirci: non vi stiamo dicendo che quando si precipita alla fine si può vincere lo stesso). La relazione è più sottile, e riguarda un corsivo che compare alla fine della pellicola di Eastwood. E’ la sintesi del film, che è una storia vera, ed è la sintesi di qualcosa che coincide con una parola e un concetto che nel nostro paese trovano tradizionalmente scarsa cittadinanza: orgoglio. Sintesi di “Sully”: “Il 15 gennaio del 2009, più di 1.200 membri delle squadre di primo intervento e 7 traghetti che trasportano 130 pendolari, hanno tratto in salvo i passeggeri e l’equipaggio del volo 1549. New York ha messo in campo il suo meglio. In soli 24 minuti”. Il suo meglio. In 24 minuti.

Guardate il film e alla fine della proiezione provate a farvi una domanda semplice: qual è l’ultima volta che un regista italiano ha scelto di veicolare attraverso un film un messaggio traducibile con la formula dell’orgoglio nazionale? E allora proviamo a dire di più: esiste una relazione tra l’incapacità di una cultura cinematografica a mettere in luce elementi positivi (di orgoglio) che riguardano un paese e la tendenza dell’opinione pubblica a elaborare una cultura politica estranea a ogni retorica legata all’autocommiserazione e all’autodistruzione?

Sarebbe da ingenui pensare che l’indignazione non costruttiva ostentata con tenacia dall’elettore italiano sia figlia di una cultura cinematografica incapace di rompere il muro del lamentosamente corretto. Ma sarebbe anche sbagliato non riconoscere un qualcosa che oggi si avverte chiaramente nella cultura politica del nostro paese: la mancanza totale (Zalone a parte, forse) di una tradizione cinematografica capace di imporre con continuità un messaggio contrario alla lagna, al piagnisteo, al mugugno, al brontolio; e in grado dunque di descrivere gli elementi positivi della nazione senza utilizzare solo le storie di un passato che non c’è più e solo le immagini strazianti dell’Italia che non ce la fa.

Parte del successo iniziale di Berlusconi in politica, come ci ha raccontato Andrea Minuz in un bellissimo numero monografico pubblicato dal Foglio due settimane fa, deriva dall’aver ereditato un pubblico alternativo all’Italia della lagna, che negli anni Ottanta la televisione privata si è fatta carico di rappresentare attraverso la descrizione di un modello diverso d’Italia che lo stesso Cavaliere ha poi provato con successo a portare in politica. Per molto tempo, va aggiunto, come ha ricordato tempo fa la nostra Mariarosa Mancuso, per il nostro paese è stato complicato imporre un modello di cinema patriottico, se così vogliamo chiamarlo, per la semplice ragione che il patriottismo è una categoria considerata stupidamente troppo di destra (fascista) per poter trovare con continuità una sua cittadinanza nella cultura cinematografica italiana.

Con la “Grande Bellezza”, Paolo Sorrentino ha vinto premi importanti ma ha dimostrato ancora una volta che nel cinema italiano il made in Italy è esportabile solo sotto il segno della decadenza. Con “Fuocoammare”, Gianfranco Rosi ha vinto premi importanti ma ha dimostrato ancora una volta che nel cinema italiano il made in Italy è esportabile solo se racconta non un’Italia che ce la fa ma un’Italia che resiste nonostante il disastro che la circonda. Non è sempre così, naturalmente, ma la prevalenza netta di una cultura cinematografica impegnata più a essere portavoce di riti di consolazione che a essere interprete di storie utili alla costruzione di un’identità positiva (in Italia un miliardario come Bruce Wayne non potrebbe essere impegnato a salvare il mondo ma potrebbe essere al massimo impegnato a creare precari, a fottere soldi a qualcuno e a essere colluso con un qualche poliziotto sceso ovviamente a compromessi con la mafia) è un tratto che influisce sulla formazione dell’opinione pubblica più di un tweet di Luigi Di Maio o di un post di Matteo Salvini.

Tutto questo non significa che se ci fosse un Clint Eastwood sarebbe stato più semplice per Berlusconi vincere il referendum costituzionale nel 2006 e per Renzi vincerlo nel 2016. Significa qualcosa di più sottile. Significa che se l’Italia avesse i suoi Clint Eastwood impegnati a raccontare non solo drammi e complotti ma anche bellezze e splendori (e ragioni di orgoglio) forse avremmo un paese e un’opinione pubblica capace (a) di non rimpiangere e difendere costantemente un passato che non c’è più (la nostra Costituzione è la più bella del mondo, no?) e (b) di non cedere sempre alla tentazione di demolire leadership attraverso facili processi di delegittimazione che fanno leva sulla descrizione di un paese sfasciato e alla deriva. I 24 minuti ci sono anche in Italia ma il lagnosamente corretto ci ha reso impossibile non solo guardarli e raccontarli ma 

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