Votare Sì per dare un dispiacere al sussiego dei ceti riflessivi
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La famosa "accozzaglia", una pletora di benintenzionati che si scandalizza per il clientelismo e per De Luca e avvilisce in modo tanto disdicevole la nostra cultura politica.
di Giuliano Ferrara Foglio 27 Novembre 2016
Va bene che dopo Trump non si può più giocare con la scorrettezza politica, ma fino a un certo punto. Io per esempio voterò Sí al referendum per motivi diversi da quelli indicati dal presidente del Consiglio o da Maria Elena Boschi: riprendere in mano il futuro e cambiare o modernizzare l’Italia sono cose che per storia personale e anagrafe non considero da tempo alla mia portata. Giusto che dei quarantenni responsabili si diano da fare, ma io c’entro poco. Il mio voto è per il titolo della riforma, dei cui dettagli me ne fotto, esattamente come i costituzionalisti che fingono di appassionarsene, in nome del buon senso. Sono anche contento se il processo politico cominciato due anni e mezzo fa andrà avanti, dato che nella mia miopia non ne vedo altri in campo. Ma il motivo vero è ancora un altro: desidero dispiacere un pochino, con la singola frazione di cittadinanza espressa dalla mia croce sulla scheda, ai ceti riflessivi, intollerabilmente sussiegosi, che formano la famosa “accozzaglia”.
Nella sceneggiata napoletana si sente spesso esclamare “i’ t’accide”. Nel vernacolo romano andante si dice “io a quello je menerebbe” o, nei casi più gravi, “l’ammazzerebbe”.
Nel gergo politico insincero si condanna il voto di scambio, considerato formalisticamente un reato penale nel mondo sottosopra che combatte o crede o vuol far credere di combattere il mondo di mezzo del malaffare politico, quando tutti sanno che il voto popolare è nei secoli uno scambio, ideale e più spesso materiale, vero scambio o presunto.
Se un politico campano di razza come Vincenzo De Luca fa un elogio del clientelismo, e conferisce un’onorificenza verbale a un sindaco che si dà da fare a muovere cose e consensi, si apre un caso linguistico e politico e lo si condanna. Si condanna non il clientelismo, che già farebbe un po’ ridere, ma un discorso evidentemente scherzoso e paradossale sul clientelismo, cioè su una politica appassionatamente carnale, operativa, fondata sul trascinamento del popolo e sul peso attribuito al territorio e alla società che lo abita invece che alle piccole trame ribalde della Rete di Rousseau e Casaleggio. Se uno vuole corrompere il sistema del consenso non fa un elogio del clientelismo, se ne guarda bene, questo è appena ovvio per tutti. Un po’ come nel paradosso sofistico del mentitore. Se il mentitore dice: “Io mento”, dove starà mai la verità? Cosí se un presidente dell’Antimafia mi mette in una blacklist di impresentabili a due giorni dalle elezioni per una affaire dalla quale sono prosciolto con tante scuse qualche mese dopo, sceneggiare un “i’ t’accide” mi sembra il minimo sindacale, non una minaccia camorristica, che probabilmente seguirebbe altre vie. Ma l’Antimafia invece apre un qualche dossier per cercare di nuovo di infamare l’infame.
Ecco. La correttezza politica, che già era un vuoto intellettuale e morale, diventa ora un baratro, un modo insieme sussiegoso e dispotico di esigere conformità e sudditanza al linguaggio dominante.
Il partito dell’accozzaglia è questa cosa qua. D’Alema, che dovrebbe vendere il suo vino rosso alle cooperative rosse e scrivere le memorie di uno statista, erige barricate costituzionalistiche. Grillo come al solito scoreggia. Salvini alterna un comitato per il No a un comizio con una Le Pen che non risulta arrivare da una costola della sinistra. Travaglio litiga perfino con Santoro, e ho detto tutto. Bersani lavora per il re di Prussia, che al momento buono gli darà dello zombie, non è una novità. Berlusconi come sempre è l’unico che ha capito tutto e vota Sí e No nella prospettiva di un nuovo abbraccio con il suo erede, sperando che l’amplesso avvenga a vendetta consumata. L’Economist di Londra? Bè, non voglio nemmeno aprire il capitolo dei guru o mugwump dell’opinionismo mondiale che chinano la loro seriosità sulla povera Italia: bastano due parole, Brexit e Trump, e tutto è chiaro.
Bisogna votare Sí per il bene comune e per premiare il boy scout in chief e le sue marmotte. Ma anche con una carica emozionale negativa, altro che assalto al futuro, per deludere la pletora di benintenzionati che avvilisce in modo tanto disdicevole la nostra cultura politica, il nostro sapere “intrare nel male” per sortirne qualche volta un buon risultato.