Scarpinato, D’Alema e l’Economist. Il perché di una bella storia d’amore

facilmente sintetizzabile: non solo il No a Renzi, ma anche il No al primato della politica

di Claudio Cerasa28 Novembre 2016 alle 07:55

La prima ci gira intorno e usa espressioni complicate, contraddittorie ma comunque chiare, che anche voi avrete letto e riletto in questi giorni: noi diciamo di No al referendum costituzionale perché avvertiamo forte “il pericolo che nel tentativo di fermare l’instabilità che ha dato all’Italia 65 governi dal 1945 si crei un uomo forte eletto al comando”. Il secondo lo dice con tono più diretto, esplicito, superbo, ma quantomeno non ci gira intorno e arriva subito al dunque, senza nascondersi: “Grazie alla lampada di Aladino del combinato disposto della riforma costituzionale e dell’Italicum, un ristretto gruppo oligarchico autoreferenziale in grado di autocooptarsi prescindendo in buona misura nei modi accennati dai voti di preferenza espressi da una minoranza del paese, pari a circa un terzo dei votanti, che lo porta al potere, è in grado di divenire il gestore oligopolistico delle leve strategiche dello stato, cioè della Camera e del governo”. Il terzo invece lo dice con meno parole, forse persino con meno eleganza, ma lo dice sempre con l’idea di dover mettere in luce lo stesso punto: “Questa è una riforma per un uomo solo al comando”.

La prima frase è tratta da un editoriale del settimanale più famoso del mondo, l’Economist, diretto da Zanny Minton Beddoes. La seconda frase è di Roberto Scarpinato, procuratore generale presso la Corte d’Appello di Palermo. La terza frase è di Massimo D’Alema, ex presidente del Consiglio. Gli opuscoli inviati dal Pd per convincere gli elettori a votare Sì hanno insistito molto, negli ultimi giorni, sull’idea che il fronte del No sia un fronte disomogeneo, senza un progetto, senza un tratto unificante. Non è così.

Le storie di Zanny Minton Beddoes, Roberto Scarpinato e Massimo D’Alema ci dimostrano che nel variegato fronte del No esiste un tratto culturale preciso, che coincide con un progetto politico facilmente sintetizzabile: il no al primato della politica.

Il lettore forse si starà chiedendo: ma dov’è la coerenza tra la posizione di un ex comunista, di un magistrato e di un direttore di un settimanale economico nell’essere così disordinamente contro la riforma costituzionale? La coerenza c’è: tutti, per varie ragioni, hanno un interesse a non promuovere (e anzi a bocciare) un sistema istituzionale che permetterebbe al vincitore delle elezioni di governare con maggiore facilità rispetto a oggi. La facilità maggiore deriva dal fatto che, in caso di vittoria del Sì, il prossimo esecutivo riceverà la fiducia solo dalla Camera e non più dal Senato e non si troverà dunque nelle stesse condizioni di debolezza vissute da molti di quei governi che hanno provato a guidare l’Italia negli ultimi vent’anni (il centrodestra nel 1994 e il centrosinistra nel 1996, nel 2006 e nel 2013 hanno avuto sempre un Senato con numeri più ballerini di quelli della Camera). Se a questo si aggiunge il fatto che, al momento, la legge elettorale è costruita in maniera tale che vi sia un vincitore certo (tutto dipende dalla fine che farà il ballottaggio) si capisce bene come il nodo sia centrale e si capisce bene che il 4 dicembre si voterà anche su questo: siamo pronti o non siamo pronti ad avere un governo che possa preoccuparsi non soltanto della rappresentatività ma anche della governabilità? In altre parole: vogliamo o non vogliamo un sistema istituzionale che crei competizione tra le forze politiche e che permetta a chi vince le elezioni di governare gli interessi del paese e non di essere governato da essi?

Nel 1995, nel fantastico discorso pronunciato da Silvio Berlusconi alla Camera, l’ex presidente del Consiglio spiegò bene quella che era e resta una tentazione italiana: “L’Italia dei partiti, fondata sul sistema elettorale proporzionale e sulla dottrina non scritta del consociativismo, si permette il lusso di immaginare un futuro che però non deve arrivare mai. E all’idea della costruzione di un’autonomia istituzionale dell’esecutivo e di una legittimazione propria, i nostalgici del proporzionalismo e della consociazione insorgono: si dichiarano non protetti e chiedono garanzie”. Il punto è proprio questo: chi è portatore di un interesse particolare – i nostalgici del proporzionalismo – diffida di una riforma che può dare ai governi i giusti strumenti per non essere ostaggio dei professionisti della consociazione. E’ la differenza tra il modello leadership (guidare qualcuno) e il modello followship (farsi guidare da qualcuno) e per varie ragioni Zanny Minton Beddoes, Roberto Scarpinato e Massimo D’Alema (e molti altri) hanno l’interesse a contrastare un sistema istituzionale che renda una leadership più forte.

A chi conviene difendere lo status quo?Dall’Economist a Md fino alla Cgil. Così, a un passo dal referendum, il Pd scopre che i nemici del Cav. oggi sono i nemici del Pd. Motivi? La risposta c’è. Indagine su una rivoluzione culturale.

La direttrice dell’Economist dà voce a una parte importante dei mercati che vuole stabilità, sì, ma dovendo scegliere tra un sistema in cui il leader è guidato e un sistema in cui è il leader che guida preferisce la prima opzione. Che in soldoni vuol dire la stessa cosa che intende D’Alema quando dice No alla deriva autoritaria: non ce ne frega nulla di avere un governo che possa governare, a noi interessa soltanto che Grillo non arrivi al potere e che la grande coalizione diventi lo strumento unico per sfiancare le forze antisistema. Un passaggio in più invece si nasconde dietro il no di Scarpinato, che come molti magistrati, dietro la favoletta della lampada di Aladino, cela una preoccupazione concreta che va al di là della critica a questo o a quell’articolo della Costituzione: la preoccupazione che un sistema istituzionale che rimette al centro il primato della politica possa essere il preludio a un riequilibrio di potere tra il sistema giudiziario e il sistema esecutivo. Che cosa c’entra la giustizia con il referendum costituzionale? Nel 1993, ha raccontato Ciriaco De Mita lo scorso ottobre, la Bicamerale fallì per una ragione semplice: “Ricordo che a un certo punto, quando eravamo al nodo giudiziario, arrivò un telegramma dalla procura di Milano: era una diffida a proseguire”. Stesso discorso nel 1998. E’ una storia che abbiamo ricordato più volte ma spiega bene perché non è un caso che quando si vuole riformare la Costituzione ci sia sempre qualche magistrato di mezzo.

Il racconto è di Marco Boato:Nel gennaio del 1998 mentre si cominciava a discutere in Aula della riforma Costituzionale, e mentre da parte di Md giungevano critiche durissime, l’Anm fece un convegno contro le riforme costituzionali (al Palazzaccio). Il magistrato Elena Paciotti pronunciò una relazione violentissima contro la riforma e Scalfaro intervenne dicendo di condividerla parola per parola”. Zanny Minton Beddoes, Roberto Scarpinato e Massimo D’Alema, dietro al loro “No al leader solo al comando”, ci stanno dicendo qualcosa di diverso: la politica forte è un problema per l’Italia e per fare gli interessi di molti è preferibile avere una politica debole. Il 4 dicembre, in fondo, si vota anche su questo.

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