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Come sono caduti in basso (e perché) i rapporti tra la Cei e Chigi nell’èra del boy scout al governo. L’incognita Mattarella
di Matteo Matzuzzi | 05 Febbraio 2015 ore 11:55 sul Foglio
Roma. Dicono, dalle parti della Conferenza episcopale italiana, che la rispostaccia che Matteo Renzi diede qualche mese fa alla richiesta del cardinale Angelo Bagnasco di fissare un appuntamento con lui – “vuole parlare con me? Deve parlare con Luca Lotti”, cioè con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, di fatto l’uomo macchina del governo – sia l’istantanea perfetta sullo stato dei rapporti tra governo italiano e alte gerarchie ecclesiastiche: prossimi allo zero. Di acqua sotto i ponti ne è passata tanta da quando altissimi prelati, di qua e di là del Tevere, si disputavano quasi fosse una partita di tiro alla fune il diritto di precedenza nei rapporti con il governo d’Italia. Era il 2007, e Tarcisio Bertone, salutando il neo presidente della Cei, Bagnasco, gli spiegava per iscritto che da quel momento a tenere le relazioni con le istituzioni laiche, a nome della chiesa italiana, sarebbe stato lui, il segretario di stato di Sua Santità. La mossa non fu delle più fortunate. Decine di vescovi, d’ogni schieramento possibile, si sollevarono indignati protestando contro la mossa (azzardata) senza precedenti. Otto anni dopo, a nessuno verrebbe neppure in mente di scaldarsi troppo per questioni di così poco conto.
Tutto è cambiato, da allora. I rapporti tra vescovi e governo sono inesistenti. Sopravvivono a livello ufficiale, certo. Ci sono i ricevimenti per il congedo dell’ambasciatore presso la Santa Sede, Francesco Maria Greco, c’è il rito dei telegrammi d’auguri e felicitazioni e congratulazioni, i consueti affollati brindisi a ricordo dei Patti lateranensi del 1929. Ma il tempo dei cardinali che alzavano la cornetta componendo l’interno di Palazzo Chigi è finito. I prelati se ne faranno una ragione, sembra dire il premier che, rispondendo a una domanda di Repubblica circa la presunta arrabbiatura del presidente dei vescovi italiani, diceva “so solo che io non faccio quello che facevano i miei predecessori. Forse erano abituati male”. Il fatto è che i vescovi sanno che Renzi “li prende a pesci in faccia”, e tutto sommato hanno rinunciato a cercare un’interlocuzione, un contatto, un canale, si sussurra dalle parti del quartier generale sulla via Aurelia. Se vuole, il presidente del Consiglio chiama il Papa, componendo l’interno dell’austera suite numero 201 del residence di Santa Marta. Senza passare da mediatori superflui. L’ha anche detto: “Io, cattolico, rispondo ai cittadini, non ai vescovi”.
Certo, qualcuno nella cerchia degli italiani di curia ancora millanta contatti con Palazzo Chigi, ma basta cercare qualche riscontro e si scopre che sì, forse ci si è scambiati un bigliettino d’auguri per Natale. Di quelli inviati dagli uffici stampa o dalle segreterie particolari, firmati in serie senza badare troppo al destinatario. Monsignor Nunzio Galantino, il segretario generale della Cei scelto da Francesco, ha fatto bene intendere che il vento è cambiato. La chiesa va avanti per la sua strada e di certo “non si lascia impressionare dalle leggi, perché l’ethos più profondo deve essere educato e rappresenta l’istanza ultima di valutazione”, diceva lo scorso 6 gennaio in un’intervista concessa al direttore dell’agenzia Sir, Domenico Delle Foglie. Quanto ai cattolici tiepidi, poco attivi nello spazio pubblico, chiariva che “il limite dei cattolici è di farsi arruolare da una parte o dall’altra finendo con il diventare megafoni di posizioni politiche precostituite”. Nonostante ciò, è proprio Galantino uno tra quelli più attivi nel saggiare il terreno alla ricerca d’un canale di comunicazione, benché abbia due ostacoli sulla propria strada: con Renzi il feeling è – per usare un eufemismo – scarso, e poi paga il fatto d’essere assai isolato anche tra i confratelli vescovi, che poco gradiscono il suo interventismo e altrettanto poco comprendono le frasi a effetto sulle “polpette avvelenate”, i “fusi orari della gente” e sui “volti inespressivi” di chi recita il Rosario fuori dalle chiese dove si pratica l’interruzione di gravidanza. Il presidente del Consiglio, non a caso, tempo fa ha calcato la mano proprio sulle divisioni interne alla Cei che – sopite per anni – lentamente vengono a galla: “Ricevo telefonate di amici vescovi che mi dicono che le parole del segretario generale della Cei sono personali”. Come dire, insomma, che Galantino parla per sé e non per gli altri. Un navigato osservatore di rapporti tra le due sponde del Tevere osserva che “al governo hanno semplicemente concluso che la Conferenza episcopale italiana conta poco, per non dire nulla”. D’altronde, è stato Francesco a battezzare la svolta, rinunciando a cavalcare le battaglie politiche sui valori più o meno negoziabili e chiarendo che non sarebbero più arrivate benedizioni a marce, sit in e manifestazioni. E Renzi di complicarsi la vita con i temi sensibili non ha intenzione, anche se ha ribadito, da Bruno Vespa, che sulle unioni civili il governo agirà presto. Dopotutto, il Papa gli ha offerto un assist perfetto: “Il dialogo con le istituzioni culturali, sociali, politiche, che è un compito vostro”, aveva detto Bergoglio solo due mesi dopo l’elezione ricevendo in San Pietro i presuli della Cei, che aveva poi ammonito sul rischio che corre il pastore “tiepido, distratto, dimentico e persino insofferente”, trasformato in “un funzionario, un chierico di stato preoccupato più di sé, dell’organizzazione e delle strutture, che del vero bene del Popolo di Dio”. Naturale, osserva rassegnato un vescovo, che se il Papa si lancia in considerazioni del genere, il governo prenda la palla al balzo per confinare nell’irrilevanza l’assai nutrita e variegata compagine dei prelati della penisola.
Il paradosso è che, dal boy scout Renzi in giù, al tavolo di Palazzo Chigi i cattolici non mancano, anzi. La scuola democristiana, quella che prima di dare l’imprimatur a nomine e scatti di carriera spesso chiedeva il placet delle alte gerarchie, è ai posti di comando. Eppure, mai come ora le relazioni sono apparse così fredde. Qualcuno tra i vescovi, timidamente, ha tentato nel corso dei mesi di instaurare una linea di contatto diretto con il cattolicissimo Graziano Delrio, senza successo. Qualche risultato in più lo hanno ottenuto con Lorenzo Guerini, una delle ultime leve lombarde della già declinante Democrazia cristiana, cresciuto e formatosi tra Partito popolare e Margherita. Guerini però nel governo non c’è. E’ vicesegretario del Pd e solo da quella posizione, lontano dalla sala del Consiglio dei ministri, può esercitare la silenziosa e prudente sorveglianza che qualche eminente esponente della chiesa italiana ancora auspica. Ma il mondo è cambiato. La Cei non è più – e non da oggi – la Cei di Camillo Ruini, quella nata sulla spinta della rivoluzione di Loreto di Giovanni Paolo II datata 1985, che nel travaglio dei primi anni Novanta ebbe un ruolo di supplenza attiva dopo il crollo della Dc. Francesco la vuole libera e non politica, allineata con la sua agenda protesa verso le periferie più lontane. La Cei di Ruini era il riflesso nostrano della vigorosa chiesa di Karol Wojtyla, che voleva e pretendeva d’essere presente nello spazio pubblico, con un ruolo attivo.
Epoche tramontate, entrambe. Francesco ha accelerato quel che era manifesto già negli ultimi anni del pontificato ratzingeriano, quando l’allentamento delle relazioni iniziava già a intravedersi tra le pieghe delle lotte tra correnti della Cei e tra parte della Cei e la Segreteria di stato bertoniana. Paradossalmente, con la chiesa italiana che – sulle frequenze di Bergoglio – va portandosi sempre più al capezzale del paese, per i laici s’apre uno spazio tutt’altro che irrilevante per giocare un ruolo da protagonisti. Eppure, i primi a rimanere tagliati fuori dal cambio di registro nelle relazioni tra le sponde del Tevere sono stati proprio coloro che per anni avevano tessuto la trama di quei rapporti. Si guardi ai movimenti, alle grandi associazioni laicali, sempre più attraversate da conflitti sulla linea da tenere, se gettarsi a capofitto nelle periferie o ricostruirsi un ruolo politico, tentando di rinverdire una stagione ormai archiviata e rischiando di finire in un vicolo cieco. L’esperienza di Todi e Norcia del 2011, del derby tra cattolici di destra e cattolici di sinistra riuniti a convegno per studiare il futuro della presenza cattolica in politica, insegna: qualcuno accarezzò anche l’idea di far risorgere la defunta Balena bianca, riunendo in un nuovo partito persone che per venti e più anni s’erano combattute su fronti contrapposti. Fu Ruini a riportare tutti alla realtà, definendo la Dc un’esperienza “irripetibile”. La via, diceva il cardinale emiliano, “è la convergenza sui valori essenziali. Una cosa diversa da un partito” che neppure “ha l’ambizione di esserne un surrogato”.
Avrebbe forse potuto ricompattare almeno una parte della realtà politica cattolica l’elezione di Giuliano Amato al Quirinale. Storico uomo del dialogo tra socialisti e chiesa italiana (le sue posizioni più che prudenti sull’aborto e la legge 194 non sono mai state dimenticate), era gradito in settori della gerarchia e del laicato, ad esempio all’ala di Cl protagonista in politica negli ultimi decenni, che oggi soffre di un certo disimpegno, e con la quale il giudice costituzionale è da sempre in ottimi rapporti. Renzi, ben sapendo come stavano le cose, ha preferito soprassedere, puntando sul moroteo Sergio Mattarella. Con buona pace di quanti (tanti) in Ncd tenevano a ricordare al premier (e a Lotti) che il laico e socialista Amato andava bene anche a una grossa fetta di cattolici riuniti in movimenti e associazioni. La scelta di Mattarella, interprete quasi letterale dell’idea di autonomia del laicato cattolico dalla gerarchia conferma che – come peraltro aveva detto venerdì uno stizzito Galantino – non è certo l’appartenenza a storie o associazioni cattoliche a determinare, oggi, chi è degno di salire al Quirinale. La situazione è talmente nuova, si osserva dalle parti della via Aurelia, che incredibilmente questo potrebbe essere il momento perfetto per tagliare l’otto per mille alla chiesa cattolica. Nonostante la presidenza della Repubblica sia occupata dopo sedici anni da un uomo della Dc e Palazzo Chigi da un ex boy scout che ha fatto carriera nella Margherita. La distanza è così ampia che basterebbe davvero poco, si fa notare: sarebbe sufficiente replicare quello che ha appena deciso il governo del (già) cattolicissimo Lussemburgo: taglio del sostegno economico alla chiesa e insegnamento della religione sostituito da corsi di “educazione ai valori”.