La guerra in Libia è affare dell’Italia e (di Al Baghdadi)

Siamo gli unici che fanno da pontieri tra le parti del conflitto, ma lo Stato islamico guadagna terreno

di Daniele Raineri | 05 Febbraio 2015 ore 06:18 Foglio 

Roma. Mattia Toaldo è un analista per lo European Council on Foreign Relations di Londra e tiene d’occhio cosa succede in Libia, dove una crisi di sicurezza sta diventando sempre più grave, settimana dopo settimana. Spiega al Foglio che nella capitale Tripoli “la presenza dello Stato islamico nelle strade è ormai un fatto. C’è da registrare un cambio di clima pericoloso. Non mi riferisco soltanto all’attacco della settimana scorsa all’Hotel Corinthia (cinque attentatori suicidi sono entrati e hanno ucciso dieci persone, ndr) che comunque è nella zona centrale della città e in teoria era ben protetto. Mi riferisco alla percezione del rischio elevato che ormai è ovunque. Prima mi sarei fermato a prendere un caffè fuori, anche se non a piedi ma sempre accompagnato in macchina, adesso non lo farei più. A partire dall’anno scorso lo Stato islamico sta tentando di ripetere in Libia quello che ha già fatto in Siria e Iraq. Stanno tornando jihadisti libici che hanno combattuto in medio oriente per anni con lo Stato islamico e ora sono veterani con esperienza. C’era stato un piccolo miglioramento l’anno scorso, ora il livello di sicurezza sta crollando. Sento fonti e sento giornalisti che lavorano in Libia da anni e dicono che non avevano avuto mai così paura, pure in questi anni difficili, con i combattimenti”. Questo a Tripoli, nell’ovest del paese che è considerato meno esposto alla penetrazione del gruppo di Abu Bakr al Baghdadi. E a est invece? Attorno a Bengasi, nelle zone già controllate dagli islamisti “c’è un progressivo smottamento verso lo Stato islamico dei combattenti del fronte locale, Ansar al Sharia. Dicono che lo Stato islamico ha un progetto chiaro, dicono che Ansar al Sharia in questi mesi non ha combinato nulla. Sta accadendo quello che è già successo in Siria, i libici seguono lo stesso pattern: i gruppi locali lasceranno il posto, per forza o per cooptazione, allo Stato islamico”.

L’Italia è il paese che si sta occupando di più di questa Libia, spiega Toaldo. “Dopo la caduta di Gheddafi nel 2011 sembrava che il paese stesse per finire in mano a Francia e Gran Bretagna, ma in realtà la Libia è rimasta un dossier italiano come prima. Siamo gli unici ad avere ancora un’ambasciata aperta nella capitale Tripoli – dove c’è uno dei due governi in lotta, ndr – e quando si sente dire che l’inviato delle Nazioni Unite, Bernardino León, ha incontrato l’una o l’altra parte della guerra, all’80 per cento è avvenuto nelle stanze dell’ambasciata italiana, con la presenza dell’ambasciatore o di nostri diplomatici. Oltre ad avere l’unica sede aperta a Tripoli, siamo anche allo stesso tempo in contatto con l’altro governo, che sta a Tobruk, e questo ci mette in una posizione speciale, siamo gli unici pontieri. A volte questo equilibrio viene un po’ scosso dalle dichiarazioni ‘egiziane’ del premier, Matteo Renzi o del ministro della Difesa, Roberta Pinotti: dicono di appoggiare il presidente Sisi, gli egiziani lo intendono come un via libera in Libia”.

Abbiamo perso molto dal punto di vista economico con la caduta di Gheddafi? L’Eni in realtà è riuscita a non interrompere mai la produzione, un po’ ridotta, anche perché sta nell’ovest ed è offshore. Ma la Libia non è soltanto energia. Abbiamo perso le commesse, gli investimenti, gli appalti libici (e anche i debiti da decine di milioni di euro che i libici avevano con alcune nostre imprese). La Libia in questo momento non ha finanza pubblica e non spende, a malapena paga il mese agli statali. E’ arrivata al punto di chiedere che il suo fondo d’investimento all’estero resti congelato, sotto sanzioni, per paura che venga sperperato nella guerra”.

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