Perché i vescovi temono i tagli alle diocesi comandati
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da Francesco. Pochi battezzati, troppi prelati, campanilismi violenti. Spending review vaticana
di Matteo Matzuzzi | 01 Febbraio 2015 ore 06:01
Roma. Il progetto per ridurre a duecento (dalle attuali duecentoventisei) le diocesi italiane va avanti spedito. Dopo trent’anni di discussioni, accelerate improvvise e retromarce repentine, il traguardo sembra a portata di mano. A superare campanilismi, minacce di agguerrite amministrazioni locali e corpose petizioni popolari, sarà l’intervento diretto di Francesco. Il Papa, primate d’Italia, ha infatti chiesto che gli sia messo a disposizione il dossier che da decenni passa di mano in mano negli uffici della Conferenza episcopale italiana.
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Quasi due anni fa, due mesi dopo l’elezione al Soglio di Pietro, Bergoglio aveva osservato davanti ai vescovi presieduti dal cardinale Angelo Bagnasco riuniti per la professione di fede in San Pietro che le diocesi italiane sono “tante” e “un po’ pesanti”, facendo intendere che una loro riduzione sarebbe stata apprezzata dalle parti di Santa Marta. “Sono molte, che siano troppe è un altro discorso”, s’era affrettato a precisare Bagnasco, ponendo l’accento sul particolare retaggio storico della penisola e sulla “capillarità delle nostre chiese”. Ma il Papa ha deciso che quel dossier va chiuso in fretta, e anche oltretevere c’è chi ammette che solo lui, nato e cresciuto quasi alla fine del mondo, può riuscire laddove tanti hanno fallito: accorpare il più possibile per riportare il numero delle diocesi (e dei vescovi) entro confini accettabili, ora che l’Italia cattolicissima non lo è più e la chiesa universale è proiettata con tutte le forze nella missione evangelizzatrice delle periferie, specie di quelle del sud del mondo. Sui criteri si discute ancora, e pare che a determinare il taglio, alla fine, non sarà il numero degli abitanti (più o meno di centomila per diocesi come inizialmente ipotizzato), bensì si valuterà quali sono le sedi episcopali capaci di reggersi autonomamente.
Si fa l’esempio di Susa, in Piemonte: 69 mila battezzati, un vescovo, cinquantuno preti perlopiù ultrasettantenni e sessantuno parrocchie. Numeri irrisori, come quelli di Acerenza, in Basilicata: 42 mila battezzati, ventuno parrocchie, quarantadue sacerdoti. Qui non c’è neppure il vescovo, visto che la cattedra è vacante da un anno e mezzo, da quando mons. Ricchiuti fu trasferito ad Altamura. Un caso particolare è quello di San Marino-Montefeltro, che con i suoi 64 mila battezzati rischierebbe di essere inglobata in una diocesi vicina. Il vescovo, tramite il nunzio in Italia, mons. Adriano Bernardini, avrebbe ricevuto qualche giorno fa assicurazioni sul fatto che – vista la particolarità di essere capitale di uno stato sovrano – la scure risparmierà la cittadella del monte Titano. Non sono state questioni di danaro a impedire, fino a oggi, il riassetto, così come non è la necessità di una spending review a imporlo oggi. L’ostacolo sono state le resistenze delle comunità locali, dice al Foglio il vaticanista Sandro Magister, che ricorda come il vescovo Antonio Zama fu messo sotto scorta quando si trattò di accorpare Sorrento con Castellammare di Stabia: “Nessuno voleva imbarcarsi in questa faccenda, in fin dei conti non così rilevante”, ha aggiunto, additando a esempio di quello che potrebbe presto accadere la decisione del Papa (datata ottobre 2014) di privare l’abbazia di Montecassino della potestà diocesana sul territorio circostante, trasferendola alla sede episcopale di Sora-Aquino-Pontecorvo.