Il carattere di un presidente nell’era della falce
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e Mattarella. The day after Mattarella è un flusso di spunti, di dettagli e di appunti su quello che ci sarà dopo l’elezione del nuovo presidente della Repubblica
di Claudio Cerasa | 01 Febbraio 2015 ore 12:03 Foglio
E gli spunti ci dicono questo. Ci dicono che il vincitore di oggi, in versione Ronaldinho della tattica, si chiama Matteo Renzi. Ci dicono che la vittoria di sabato scorso è il passaggio politicamente più importante e forse più maturo vissuto dal presidente del Consiglio dopo il 41 per cento delle elezioni europee. Ci dicono che attorno al nuovo capo dello Stato, uomo grigio ma pulito, pallido ma sostenibile, non il nostro tipo ma con un profilo e una complessità politica alle spalle che si trova distante anni luce dalla demenzialità e dalla ridicola leggerezza degli imposimati a cinque stelle, il segretario del Pd è riuscito a costruire una cornice che ha messo insieme quella che alla lunga potrebbe essere anche una nuova maggioranza di governo (Pd compatto, Bersani gioioso, D’Alema eccitato, Orfini orgoglioso, Bindi commossa, Civati spiazzato, Vendola incredulo, ex grillini conquistati, amici di Alfano dilaniati). Ci dicono, inoltre, che la forza di Renzi, e vale in tutti i campi, Quirinale, riforme, legge elettorale, rapporto con i sindacati, con i magistrati, con Confindustria, con i corpi intermedi, è anche quella di saper dividere per comandare, di sapere separare per contare, di saper destrutturare per eliminare i poteri di veto per tenere alla fine sempre il pallone tra le proprie braccia.
Certo, ovvio: si potrebbe parlare a lungo anche del partito di Alfano (yawn), delle interessantissime ragioni che hanno portato Sacconi a dimettersi da capogruppo di Ncd (non stiamo nella pelle), delle appassionanti dispute delle micro minoranze di Forza Italia (il paese pende dalle labbra dei 40 parlamentari di Fitto), delle profonde occhiaie scavate sui volti di tutti (saranno un centinaio) i quasi candidati al Quirinale che si sono dovuti rassegnare al doppio passo renziano, dei tentativi già ampiamente in corso di riempire di colori politici il grigiore del nuovo presidente della Repubblica (con Bersani che a presidente non ancora eletto si augura di trovare nel presidente una sponda utile per riscrivere l’Italicum, o yea, con D’Alema che a presidente appena eletto prova a intestarsi la vittoria, o yea, con gli avversari di Renzi che due secondi dopo aver sentito scandire per l’ultima volta da Laura Boldrini il nome Mat-ta-rel-la già si immaginavano come trasformare il nuovo presidente della repubblica in un mattarellum da utilizzare contro il presidente del Consiglio). Si potrebbe fare tutto questo e si potrebbe anche far notare a qualche direttore malizioso che, pur in un contesto dalle ritualità paramassoniche come è da sempre l’elezione segreta di un presidente della Repubblica, l’odore stantio di massoneria (citazione di Ferruccio De Bortoli) è stato sostituito dallo splendido anche se spietato odore della politica pura. Ma il punto politico forse più interessante da analizzare, due giorni dopo l’elezione del nuovo capo dello Stato, è capire non cosa succederà al patto del Nazareno ma è andare a sbirciare il carattere del primo presidente eletto nell’era del cinismo renziano.
Può piacere o non piacere ma Mattarella, pur essendo il padre del Mattarellum, è il perfetto figlio dell’Italicum, e il carattere necessario del nuovo presidente della repubblica, che lo rende fit nel nuovo contesto politico della terza repubblica, è il principio del non interventismo, del voler e dover riportare il ruolo del capo dello Stato a una visione non estensiva dei limiti posti dalla Costituzione (come da parole dello stesso Mattarella, ripescate sabato da Guido Gentili sul Sole 24 Ore), dell’essere un presidente non straordinario, più ordinario, più tedesco, e più notaio, se vogliamo. Al di là delle questioni politiche, tattiche, correntizie, parlamentari, la scelta del nuovo presidente della Repubblica è nata all’interno di una dialettica tra due filosofie contrapposte: tra chi chiedeva di avere uno straordinario garante attivo simile a Napolitano, capace dunque di poter muoversi in modo non ordinario nell’attesa della riforma costituzionale, della fine del bicameralismo, dell’elezione diretta del presidente del Consiglio, e tra chi invece chiedeva di stabilire già oggi quello che ci sarà domani, formalizzando da subito il nuovo equilibrio dei poteri. Con un ragionamento elementare: il consenso istituzionale (palazzo Chigi) deve contare sempre più del contesto istituzionale (Quirinale).
Sul patto del Nazareno il discorso invece è evidente: Renzi non ha eletto un presidente della Repubblica in accordo con Berlusconi,vero, ne ha eletto però uno che sapeva che non sarebbe dispiaciuto a Berlusconi, e lo ha fatto con la convinzione e la certezza che il gioco delle tre maggioranze (una di governo, con Ncd; una per le riforme, con Forza Italia; una per il Quirinale, con chi ci sta) non è insostenibile per una ragione semplice: non è Renzi a non avere alternative per andare avanti ma sono tutti gli altri che non hanno alternative per andare avanti e combinare qualcosa. Il discorso vale anche per Forza Italia: la tentazione di farsi saltare in aria è forte, comprensibile, umanissima, ma la consapevolezza che Renzi ha mille altre alternative per governare costringerà il Cav. a far di tutto per rimanere dentro il perimetro di gioco, come fatto sabato quando ha deciso di rimanere in aula, per essere ancora della partita, e per poterla condizionare. E’ il gioco dei patti. E nessuno come Berlusconi sa come funzionano i patti: si fanno, si rompono, si rifanno, si rompono, si ricuciono, si ritrattano. Funziona così. Non è una gabbia pidduista. Si chiama semplicemente politica.