Grecia, che fare. La si lascia fallire o paghiamo
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le sue promesse dilatorie? Che pensano Pilati, Mingardi, Monti.
di Giuliano Ferrara | 30 Gennaio 2015 ore 06:27 Foglio
I campioni fecali sono un bel problema. Racconta Bret Stephens sul Wall Street Journal di mercoledì scorso che a una start-up di vendita di olio online, in particolare sul mercato americano, le autorità di Atene hanno imposto di usare solo la lingua greca, ed era giusto uno dei lacci burocratici della lunga trafila: ufficio tasse centrale, quello locale, per non parlare dei vigili del fuoco o degli enti finanziari pubblici. Poi è arrivato il ministero della Sanità, e ha chiesto i raggi X al petto e i campioni fecali degli imprenditori, così, tanto per accertamenti. Ci sono voluti dieci mesi. Cosa non si fa per una busta che passa sotto il tavolo. Invece il signor Antonopoulos, quando si è dovuto registrare alla Food and Drug Administration, l’authority americana, ha compilato un formulario in cinque minuti e ha avuto via libera in 24 ore. E’ che l’economia greca è costruita per il fakellaki, la busta, e non si fa niente senza barare al gioco. Chi vuole cavarsela non ha altra scelta. Il conto lo pagò in principio Washington per garantirsi nella Guerra fredda; poi Bruxelles, Francoforte, Berlino nei tempi belli dell’europeizzazione e degli imbrogli. Stavolta la Merkel non paga. Ora si trovino un altro salvatore (la Cina?). Questo il suggerimento di Stephens, che conclude: la cosa più penosa, ma anche la migliore, è che la Grecia fallisca, e che questo sia un avvertimento agli altri riformatori europei che prendono lezioni di economia dalle pagine op-ed del New York Times. “Le elezioni hanno conseguenze. I greci stanno per scoprirlo”. Ma che cattivo.
Mai fidarsi dei Greci Martin Wolf sul Financial Times è più bonario. La City di Londra non è Wall Street, i lupi si mascherano meglio. Nello stesso giorno, mercoledì, si è richiamato alla statesmanship, alla grande politica rispettosa delle regole democratiche, per suggerire che il debito greco sia in parte condonato. Bisogna trattare la Grecia come i paesi poveri del mondo sottosviluppato, che furono oggetto di remissione negli anni Novanta. D’altra parte i tedeschi sono fissati con il debito come Schuld, colpa, ma se c’è colpa è dei creditori, che dovevano fare la due diligence, l’accertamento, prima di prestare i denari. I greci promettano riforme, e gli stati europei della zona euro gliele paghino, è il ragionamento del guru neokeynesiano. Conviene a tutti quanti. Un Grexit significherebbe instabilità, svuotamento dell’euro come moneta unica, ridotta a meccanismo di cambio fisso con effetti variabili per i contraenti, una robina senza futuro, tantomeno politico. Wolf il lupo buono sorride a Tsipras: basta estendere i termini del debito e pretenderne il pagamento, “extend and pretend”, abboniamolo in cambio della buona condotta.
Wall Street e City: bianco e nero, sì e no, giorno e notte. E allora: che ci facciamo con la Grecia? Ne parliamo con Antonio Pilati, che queste cose le conosce come sanno i lettori del Foglio; con Alberto Mingardi, capo del think tank liberista Bruno Leoni; con Mario Monti, economista sociale di mercato, dieci anni a Bruxelles e poi presidente del Consiglio, quando per Time era “the man who can save Europe”, nientemeno.
Alberto Mingardi. “Divergenza incomponibile. Prova una linea mediana Leszek Balcerowicz, l’economista e uomo di stato polacco. Dice: ristrutturiamo il debito, almeno ne pagano un pezzo, e imponiamo riforme in modo intransigente. Ma, dico io, nemmeno all’Ocse sono d’accordo su quali siano le riforme da fare, via. Stephens è realista, lavora nelle pagine di Paul Gigot, neoconservatore, liberista, colto, erede di Robert Bradley, e per quanto liberi i giornali anglosassoni una linea ce l’hanno. Il Financial Times esprime le élite europee. Non sono liberisti, pensano che alla fine bisogna pompare denaro perché la crisi è da domanda, bisogna sussidiarla. Ora lì di contrarian c’è solo Clive Cook, anche Christopher Caldwell lo hanno archiviato. Che fare? Non è possibile un club monetario da cui non si può uscire. Organizziamo il Grexit. Poi vediamo come va l’economia venezuelana con il tzatziki di Alexis Tsipras”.
Antonio Pilati. “C’è una questione di democrazia. Pinochet ha fatto buone riforme economiche, con i consigli di Milton Friedman. Ma non credo ci stia bene fare così. Sarà anche un governo macho-comunista e nazionalista, e non sono un affezionato di Tsipras, ma i greci hanno stabilito chi decide e che cosa, c’è poco da fare. Bisogna trattare e rinegoziare il debito e cambiare il funzionamento dell’euro e della Ue. La Troika è stata pinochettista. Invece si può fare come la Thatcher, come Blair, anche come Abe: riformatori diversi tra loro ma che hanno puntato al consenso democratico”.
Alberto Mingardi. “L’euro è impalcatura di norme, se si deroga è la contaminazione generale. Il voto per Tsipras non è l’Home rule degli irlandesi, una rivendicazione orgogliosa dell’autogoverno. Anzi, è l’europeizzazione malsana della politica democratica, che diventa terreno di scontro delle ideologie a spese degli altri. La democrazia è scegliere e affrontare le conseguenze della scelta”.
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