Il corteggiamento tra Qatar e Londra passa dal mattone

Il quartiere finanziario Canary Wharf arrichisce la collezione immobiliare dell’emirato e Cameron gongola

di Alberto Brambilla | 30 Gennaio 2015 ore 06:27 Foglio

Roma. Nel tumultuoso mercato immobiliare londinese s’è fatto largo il Qatar che, con uno dei suoi fondi sovrani, è riuscito nell’acquisto di parte del quartiere rivale della City, il mitico Canary Wharf. Ospita banche (Credit Suisse, Hsbc, Citigroup, Morgan Stanley, Bank of America, Barclays) e colossi dei media (Telegraph, Independent, Reuters, Daily Mirror) ed è stato oggetto di una lunga contesa tra gli azionisti della società Songbird, proprietaria del complesso di uffici e grattacieli nell’East London. Il fondo sovrano dell’emirato, Qatar investment authority (Qia), s’era visto respingere per due volte l’offerta dal consiglio di amministrazione di Songbird, di cui è anch’esso azionista, e ha deciso di rivolgersi direttamente agli altri soci amici ottenendo il loro placet mercoledì. Ad appoggiare i qatarini, l’investitore statunitense Simon Glick, la China investment corporation e la banca d’affari americana Morgan Stanley. Il fondo dello sceicco Abdullah bin Mohammed al Thani aggiunge così un altro pezzo pregiato di Londra ai prestigiosi palazzi dei magazzini Harrods e al grattacielo Shard. Le complesse trattative sono durate mesi, ma il Qatar ha offerto comunque meno di quanto s’attendessero i soci più ostili: 3,4 miliardi di euro.

A curare gli interessi del Qia in Gran Bretagna c’è un discreto ex agente dei servizi di controspionaggio per l’estero (MI6) dei tempi di Blair come John Scarlett, diventato un saggio consigliere per conto di Doha con l’incarico di mantenere fluidi i rapporti tra l’emirato, Londra, e l’Europa. La sua società di consulenza Sc Strategy ha il fondo qatarino come suo unico cliente ma Sir Scarlett lavora anche per la norvegese Statoil, la società di consulenza Pricewaterhousecoopers, la francese Axa Investments e la banca Morgan Stanley che, coincidenza, ha dato il via libera per la cessione di Canary Wharf.

Non che la Gran Bretagna fosse refrattaria a ingraziarsi investitori del mondo islamico e in particolare del Golfo. Il governo conservatore di David Cameron ha preso il testimone del suo predecessore, il laburista Gordon Brown, e ha proseguito nell’opera di incentivazione dello sviluppo della finanza islamica nella City di Londra. In occasione del World Islamic Economic Forum 2013, a Londra, per la prima volta in un paese occidentale, Cameron ha detto senza mezzi termini di volere assicurarsi “una grossa percentuale” dei nuovi investimenti dei paesi del mondo musulmano aumentando la circolazione di strumenti finanziari rispettosi della legge coranica, la Sharia, che non contemplano interessi. “La finanza islamica cresce a un ritmo superiore del cinquanta per cento rispetto al settore bancario tradizionale”, disse Cameron, con investimenti mondiali che superano i mille miliardi di dollari. Londra ambisce a contendere a paesi del mondo islamico – Malesia e Indonesia soprattutto – il titolo di centro globale della finanza islamica e a diventare il primo hub europeo. L’anno scorso Londra ha infatti lanciato il primo bond Sukuk – obbligazioni che servono a finanziare progetti concreti, come le infrastrutture – ed è stata seguita a ruota dall’americana Goldman Sachs, altrettanto interessata ai capitali islamici. L’emissione americana però ha avuto una pessima fortuna. Gli Stati Uniti continuano, in altro modo, a corteggiare gli investitori qatarini: se n’è avuta prova ieri quando la delegazione del paese in visita a New York ha avuto l’onore di suonare la campanella d’avvio delle contrattazioni del Nasdaq, il listino tecnologico americano.

“Alle esternazioni e alle simboliche aperture occidentali alla finanza islamica corrispondono in realtà pochi fatti”, dice Claudia Segre, portfolio manager del gruppo bancario emiliano Credem. “La finanza islamica nel mondo muove solo il 5 per cento dei capitali rispetto alla finanza tradizionale e ci sono criticità di fondo mai appianate. Non esiste per esempio uno ‘sharia board’ globale che può emettere un ‘bollino’ unico e condiviso tra tutti i paesi musulmani che garantisca la conformità di un prodotto alla legge coranica. Spesso non c’è accordo sui criteri tra i paesi stessi ed è il riflesso di un mondo islamico percorso da conflitti intestini. Le aperture di Cameron – dice Segre – oppure quelle mai concretizzatesi da parte di Francia e Italia, sono in realtà funzionali, soprattutto per gli inglesi, a consolidare altri tipi di business diversi dalla finanza in senso stretto che possono essere  appunto immobiliari. Ed è chiaro che paesi occidentali strizzino l’occhio al Qatar, isolato nel mondo musulmano per la protezione che garantisce a organizzazioni terroristiche come Hamas e Hezbollah”, dice Segre.

Acquistare immobili in centri nevralgici è una consolidata strategia di investimento del Qatar. Per esempio a Milano ha approfittato del disimpegno dei texani di Hines per acquistare il complesso edilizio di Porta Nuova, l’intervento urbanistico più grande dal Dopoguerra realizzato in occasione di Expo 2015, che con i suoi grattacieli – tra cui la torre di banca Unicredit – ha cambiato lo skyline del capoluogo meneghino. Recente è l’acquisto del palazzo del Credit Suisse, in piazza Cordusio, un vertice del quadrilatero della finanza. Lo stile d’investimento non ha palesi contropartite politiche dirette ma in termini di soft power è innegabile che l’investitore qatarino entri di diritto tra i notabili locali da trattare con massimo riguardo. D’altronde vogliono esserci, sanno come farsi notare  – comprando marchi glamour (Valentino, Chanel) o squadre di calcio (Paris Saint-Germain) – oppure fare parlare di sé per spettacolari imprese immobiliari. Con hotel, palazzi, grattacieli e musei, il sultanato si assicura poi una rendita fissa differente dai proventi degli idrocarburi – mai incerti come ora, visti i prezzi ai minimi decennali – per continuare a sostenere un’economia sussidiata e garantire lo stesso standard di vita all’élite di casa.

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