Questo Tsipras piace troppo, quante divisioni ha

la sua piccola Grecia?. Il fascino sinistro di Syriza, la frenesia collettiva e il peso reale di Atene in Europa. Qualche dato fondamentale

di Alberto Brambilla e Renzo Rosati | 28 Gennaio 2015 ore 06:18 Foglio

Roma. “E se fosse Atene a salvare l’euro?”, si domandava preventivamente (sabato scorso) il Sole 24 Ore, quotidiano della Confindustria. Mentre il Corriere della Sera la sinistra-sirtaki intende ballarla senz’altro: “Sarà Tsipras a riportare il continente sulla retta via?”, domanda il giornale di Via Solferino a Vassilis Vassilikos, l’autore di “Z-L’orgia del potere”. “Tsipras è l’occasione per indebolire la leadership tedesca […] fare comprendere alla Germania l’irrazionalità della sua politica economica”, rincara la dose l’economista renziano Marco Fortis sul Messaggero di ieri.

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Altro che Brigata Kalimera: sono i giornaloni della borghesia italiana a essere caduti in deliquio per la sinistra antieuro, equosolidale e un po’ a kilometro zero di Syriza; decisamente diversa dal renzismo simpatizzante turbo-liberista. In attesa della copertina di Time, il modello piace, in quanto “restituisce alla Grecia la sua dignità”, mentre il nuovo ministro delle Finanze Yanis Varoufakis “vuol cambiare la politica europea” nessuno però dice di che modello parliamo. Fermi restando gli errori della Troika e della Germania, e al di là del fatto che pochi qui si occupano dei 40 miliardi di prestiti di Roma ad Atene, di concreto in italiano ci sono le parole di Mario Draghi. Il presidente della Bce ha fatto notare che la pressione fiscale greca, pur con l’austerity, è al 34,2 per cento, sotto alla media europea. Di dieci punti più bassa che in Italia. Meno tasse più competitività, ricetta reaganiana in salsa rossa? Peccato che la relazione della Commissione europea del 2014 sui paesi membri indichi la Grecia in ritardo su tutti i parametri chiave: dalla produttività del lavoro (poco più della metà della media dell’Europa) all’innovazione (il 69 per cento) alla ricerca e sviluppo (il 30). Colpa del noto deficit nel manifatturiero (9,9 per cento del pil, in percentuale la metà che in Italia), e nel quale la parte del leone la fanno alimentari e bevande (35 per cento) – è il titolo della Hellenic Bottling Company, casa Coca-Cola, ad avere avuto una significativa defaillance post-elettorale sul listino britannico – rispetto al 6 dell’elettronica e delle macchine. Gli investimenti nell’hi-tech sono pochi, tecnologia marginale ai fini dei giochi di potenza.

Per ridare alla Grecia il suo posto in Europa, Syriza parla di tornare al passato. Allora è nel 1973 che il paese cresceva a ritmi asiatici (7 per cento annuo), coi colonnelli, i potenti armatori – oggi i demonizzati “oligarchi” nel gergo di Tsipras –, le professioni protette e il turismo. Il turismo è un “sempreverde”, ma non c’è nessuna infrastruttura davvero strategica eccetto il porto del Pireo, un feudo cinese (la Cina è stata tra i primi paesi a congratularsi con l’amico Tsipras). Non c’è un’industria dell’auto, rispetto all’odiata Turchia, Spagna o Polonia. Tuttavia non è quel paese miserabile dipinto dalla vulgata – germogliano start-up e nuove aziende con ambizioni genuine – ma nemmeno questa potenza dirompente capace di spostare equilibri economici importanti – pesa per il 2 per cento del pil europeo e ha un debito non così insostenibile. Per parafrasare il caustico blog finanziario Zerohedge, la Grecia sta a Bear Stearns come l’Italia sta a Lehman Brothers: la prima fallita e rivenduta a poco, la seconda fallita e basta con le note conseguenze sistemiche. La Grecia è premonitrice, simbolica. L’Italia, essenziale.

La retorica di Syriza è affascinante, il neo ministro delle Finanze Varoufakis è maestro nell’esasperare i toni ma pare eccessivo parlare di “rivoluzione anti austerity”, del riscatto di un paese vessato dalla rapace élite europea. Tsipras, si sa, vuole riarrangiare i termini di pagamento del debito e simultaneamente aumentare la spesa pubblica per invertire quella che drammatizzando chiama “crisi umanitaria” – disoccupazione al 25 per cento e standard di vita in calo – attraverso sovvenzioni alle famiglie incapaci di sobbarcarsi un mutuo, più sussidi ai disoccupati, nazionalizzazione di banche e ospedali, tasse più alte per i redditi sopra il milione di euro e altro. Sembra una costosa – almeno 11 miliardi di euro – promozione di una “unione fiscale keynesiana con un welfare di alto livello”, nelle parole di Paul Mason, editorialista della Bbc. Nell’attesa di sollievi fiscali, i greci si sono serviti da soli: le entrate per l’erario si sono ridotte nelle settimane pre-elettorali, dice il Financial Times. Questo farà comprendere alla cancelliera Angela Merkel l’irrazionalità della politica tedesca in Europa, come sostiene Fortis, oppure sono segnali che rafforzano la convinzione opposta agli occhi dei tedeschi? Ideologicamente, poi, la frangia più corposa di Syriza dalle simpatie no global, Synaspismos, sposa l’essenza stessa del significato dell’austerità, come stile di vita sobrio, spinto dal mito della decrescita felice, tra rinnovabili e deindustrializzazione indotta. O almeno stando al programma elettorale.

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