Il condannato non deve soffrire. Ma deve solo essere
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privato della libertà. È questo il principio che vige in Norvegia. Per questo le carceri di Oslo somigliano ad alberghi
di da Washington Alberto Pasolini Zanelli pasolini.zanelli @gmail.com Italia Oggi
La Corte è stata severa. Ha accolto alcune delle sue scuse, ma lo ha ritenuto egualmente colpevole di truffa. Si era impegnato a uccidere un coetaneo, aveva intascato il prezzo del crimine, ma non ci pensava neanche a mantenere l'impegno. Alla sera della data fissata per l'eliminazione sono rimasti in tre come prima: l'innamorato respinto, l'amato renitente, il sicario imbroglione. Età media, 20 anni, sesso maschile per tutti, sentenza rigorosamente norvegese. Il ragionamento del giudice è stato semplice, anche se impensabile in qualsiasi altro paese del mondo. Se uccidere è un crimine, non può esserlo il non uccidere. Lo è, invece, la truffa ai danni del committente. Dunque, per questo, la sentenza di condanna, la multa.
E un verdetto più severo per il committente: lui sì voleva la morte di un uomo (l'adolescente che aveva rifiutato le sue proposte sessuali) e pertanto meritava, perfino in Norvegia, una pena detentiva: due anni di carcere, subito condonati perché aveva confessato. Quindi è stato anche risarcito della somma stanziata invano, ma non tutta, perché lui sosteneva di avere pagato al «sicario» 60 mila corone (6.800 euro) e l'altro diceva di averne incassate solo 40 mila (4.550 euro). Il giudice si è lavato le mani, li ha mandati a spasso entrambi e ha chiuso il procedimento. È convinto di essere stato equo e di avere dato prova di buon senso.
Di certo ha agito in consonanza con i sentimenti dei (pochi) spettatori affluiti in aula e soprattutto con il sentimento generale. Il sistema penale norvegese è «diverso», si situa all'estremo di un arco al cui opposto c'è il sistema penale Usa, quello che non solo prevede ancora la pena di morte, ma in molti casi la considera una base di partenza su cui costruire, accumulando le condanne, una severità adeguata. Hai ucciso tre persone, si rinfaccia all'imputato. Allora ti devi fare due ergastoli (consecutivi) prima di essere messo a morte per il primo crimine. Fra la sentenza penale e l'esecuzione decorrono in media vent'anni, che uno deve passare nella cella della morte.
Rovesciamo tutto ed ecco la Norvegia. La pena di morte non esiste, l'ergastolo neppure. La condanna massima per il più grave reato immaginabile è di 21 anni, da passare in prigioni che con quelle americane, ma anche di quasi tutti i paesi europei, hanno in comune soltanto il nome. La più moderna l'hanno inaugurata due anni fa. Non ci sono sbarre, le celle si chiudono a chiave solo di notte, le guardie non sono armate, i detenuti passano il tempo in comune, fraternizzando anche con i poliziotti. Quello che conta, questo è il principio ispiratore della legge, non è far soffrire i colpevoli, ma togliere loro la libertà e, se e quando è possibile, «guarirli» trattandoli bene in modo che possano rientrare nella vita degli altri.
Un principio, questo, che si applica senza eccezioni, come s'è visto un paio d'anni fa con il «caso» di maggiore risonanza mondiale: quello di Anders Breivik, che aveva ucciso a fucilate, l'uno dopo l'altro, 77 persone in un prolungato tiro a segno su una piccola isola vicino a Oslo. Aveva tre armi da fuoco e fece in tempo a usarle tutte. Le vittime erano disarmate, giovani e adolescenti invitati dal Partito socialdemocratico norvegese a un pic-nic annuale allo scopo di fraternizzare con i coetanei immigrati, in gran parte musulmani. Ne ha ammazzati più lui in un anno che tutti i killer jihadisti sommati. Ci si attendeva una «sentenza esemplare», ammonitrice. I giudici di Oslo hanno invece semplicemente applicato la legge.
Lo si vide anche durante il processo. In molti paesi gli imputati vengono in aula in abiti carcerari, in America spesso ammanettati e con la palla al piede. Breivik compariva ogni giorno in completo scuro con cravatta e scarpe da sera. Si sedeva o si alzava se gli facevano delle domande, ascoltava con molta tranquillità anche i resoconti del suo crimine. Di lui si parlava poco: al centro dell'attenzione erano le vittime, «rappresentate» da manichini con i fori e le traiettorie dei proiettili, «ricostruiti» come erano nel momento in cui furono presi di mira. Quei ragazzi morti erano i protagonisti; l'assassino era uno spettatore, veniva quasi ignorato. Era assente, parve agli osservatori venuti dall'estero, l'impeto e la passione della giustizia o della vendetta. Le finalità erano differenti, diverse le concezioni della giustizia e della pena, in definitiva forse anche della morte e della vita. Figuriamoci a un processo in cui l'accusa principale era l'essersi rifiutati di uccidere.
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