Cartiere pubbliche Ilva
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L’acciaieria di Taranto va in sonno… su un letto di burocrazia
di Redazione | 20 Gennaio 2015 ore 06:27 Foglio
Parafrasando Milton Friedman potremmo dire che “se lo stato governasse un’acciaieria, dopo qualche anno non avremmo più acciaio”. E’ realistico. L’Ilva di Taranto, dopo due anni e otto mesi di curatele statali – commissariamento straordinario – produce meno della metà del potenziale massimo. A dicembre sono finiti i soldi in cassa. I fornitori non si fidano a vendere la materia prima senza certezza dei pagamenti. Il minerale di ferro dovrà essere razionato. Così gli altiforni lavorano a basso regime (prespegnimento) e da venerdì scorso i laminatori sono fermi. L’Ilva va dunque in letargo. E intanto cerca un nome che rispecchi l’attività produttiva principale.
Proponiamo: Ilva cartiere pubbliche. Sembra davvero più appropriato che definirla acciaieria, visto che è la burocrazia, e null’altro, a regnare sovrana. Dal sequestro monstre del luglio 2012 si sono infatti susseguiti sette provvedimenti. Il primo decreto (governo Monti) è stato l’unico efficace – ha tolto i sigilli all’azienda – gli altri (dl 4 giugno 2013, dl 31 agosto 2013, dl 10 dicembre 2013, dl 24 giugno 2014) hanno creato una sovrastruttura pachidermica e ridondante. C’è un piano ambientale con cronoprogramma (Dpcm del 14 marzo 2014) rispetto al quale il governo stesso è gravemente inadempiente. L’ultimo decreto legge (5 gennaio 2015) imposta uno schema da rivedere e propone il passaggio a un ente pubblico (?) previa amministrazione straordinaria, ovvero fallimento pilotato. Le aziende dell’indotto perderanno gran parte dei crediti pregressi (le banche non tutti). Poi consulenze e altre carte.