“Moneta comune = rischi comuni”. Berlino teme
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che Atene avvicini l’ora X. Schivati gli Eurobond, ora il “risk sharing” ha il volto del debito greco da abbonare. Convergenze fra Tsipras e falchi rigoristi
di Marco Valerio Lo Prete | 07 Gennaio 2015 ore 06:30 Foglio
Roma. Una politica monetaria centralizzata a livello europeo, a fronte di politiche fiscali delegate agli stati nazionali. Questo che per molti analisti e investitori del pianeta è per eccellenza il tallone d’Achille dell’Eurozona, cioè di un’unione monetaria incapace di rispondere agli choc asimmetrici, per altri è sempre stato l’ultimo bastione a protezione dei contribuenti dei paesi virtuosi. La garanzia – per usare un esempio in voga tra i detrattori della possibile Unione fiscale – che un debito contratto da qualche burocrate di Atene non sarà mai saldato con i soldi della Einkommensteuer, cioè l’Irpef di un qualsiasi cittadino tedesco. Ora però il riacutizzarsi della crisi greca potrebbe far crollare questo diaframma tra burocrate di Atene e contribuente tedesco. Syriza, partito di estrema sinistra in testa ai sondaggi per le elezioni del 25 gennaio, ha promesso infatti di voler rinegoziare l’enorme debito pubblico del paese (supera il 170 per cento del pil). Così però il cosiddetto “risk sharing”, la mutualizzazione a livello europo di debiti e rischi che la leadership tedesca ha finora sempre tenuto fuori dalla porta, potrebbe rientrare dalla finestra. Berlino, non da sola, ha respinto per esempio i fantomatici Eurobond e si è battuta perché non si realizzasse la garanzia comune sui depositi bancari europei. “Adesso però una ristrutturazione del debito pubblico greco, infliggendo perdite in solido ai creditori ufficiali europei, nazionali e sovranazionali che siano, equivarrebbe a una mutualizzazione de facto del debito altrui”, dice al Foglio Fabio Scacciavillani, capoeconomista del fondo sovrano dell’Oman, un passato tra Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale. Quando nel 2012 la comunità internazionale decise che il debito pubblico greco era insostenibile, a rimetterci dalla ristrutturazione furono i privati che negli anni avevano acquistato i sirtaki bond. Oggi, da una seconda ristrutturazione, a rimetterci sarebbero soprattutto i creditori ufficiali: stati europei in primis, poi forse Bce e Fmi. Le reazioni politiche ed economiche a una trattativa simile sono imprevedibili; gli stessi mercati temono l’incertezza, come si è visto anche in questo inizio anno.
Ieri le Borse europee hanno chiuso di nuovo in terreno negativo, seppure in maniera meno drastica di lunedì scorso (Milano ha fatto segnare meno 0,25 per cento). Pesa l’effetto destabilizzante del prezzo in calo del petrolio che penalizza le compagnie energetiche – ieri un barile è arrivato a costare 47,89 dollari, era sopra i 100 in estate – ma l’Europa rimane un caso a sé.
Non è detto che Syriza vinca le elezioni in Grecia, e non è detto che ottenga qualcosa in più di un cambiamento cosmetico delle condizioni dettate dalla Troika. Ma il panico o l’euforia da rinegoziazione del debito già si sentono, specie nel dibattito politico europeo. “Soprattutto la Bce non si sarebbe dovuta trovare in questa posizione. Nei programmi di aiuto del Fmi, le Banche centrali sono solitamente delle controparti, proprio come gli stati aiutati – dice Scacciavillani – Oggi, in modo improprio rispetto al suo stesso statuto, la Bce detiene titoli del debito pubblico greco. Se a questo sommiamo le perdite che il nuovo governo di Atene potrà imporre agli stati nazionali creditori, è comprensibile che un esito simile irrigiderebbe l’opinione pubblica tedesca. Non facilitando il gioco di chi si è battuto finora per forme meno ‘traumatiche’ di condivisione dei rischi, come gli Eurobond”. Finora gli avversari rigoristi di ogni mutualizzazione del debito erano stati costretti ad agitare perlopiù degli spauracchi agli occhi dell’opinione pubblica: perdite “teoriche” come quelle che potranno essere generate dall’ipotetico acquisto di titoli sovrani della Bce nell’ambito del programma Omt, seguito da un altrettanto ipotetico fallimento della Bce (da qui il ricorso pendente alla Corte di giustizia europea). La ristrutturazione del debito greco, ancora ipotetica, genererebbe invece perdite certe per le finanze di Berlino. Gli euroscettici di Alternative für Deutschland si sfregano le mani, mentre l’analista americano Ian Bremmer inserisce “la politica europea” in cima alla top-ten dei rischi geopolitici del 2015 stilata da Eurasia Group, con il riacutizzarsi dei dissapori tra Germania e paesi periferici. Per Hans-Werner Sinn, presidente dell’istituto di ricerca tedesco Ifo e considerato “un falco”, Berlino perderebbe 76 miliardi da una svalutazione del debito greco. Curiosamente però Sinn concorda: una “conferenza del debito”, come quella che chiede il 40enne Tsipras, s’ha da fare; a patto che all’alleggerimento del debito si accompagni l’uscita di Atene dall’euro. Due giorni fa, sulla prima del Corriere della Sera, anche Lucrezia Reichlin, ex economista della Bce, ha auspicato la riedizione della conferenza di Londra del 1953 che piace a Syriza: “Allora il paese debitore era la Germania – ha ricordato la Reichlin – che ottenne una riduzione del 50 per cento dei debiti contratti negli anni 20”. Certo è che non sarebbe Atene, oggi, a decidere l’eventuale convocazione di un summit del genere.