Pertini? No, grazie

Non abbiamo bisogno di un altro prim’attore devoto al proprio mito

di Giuliano Ferrara | 31 Dicembre 2014 ore 06:12 Foglio

Sandro Pertini fu persona notevole dell’antifascismo e del socialismo. Sei condanne e due evasioni, come recita il titolo del suo libro autobiografico, possono bastare alla gloria personale di un indomito combattente nato nell’Ottocento. Però fu un presidente della Repubblica polveroso, bolso, artificioso e retorico al massimo grado (1978-1985). Era un altro che doveva piacere a tutti i costi, ma senza alcun elemento di autoironia, senza giocosità. Fu eletto dopo l’assassinio di Aldo Moro, in un’Italia segnata dal terrorismo e dal sangue, dalla paura e dal compromesso storico.

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Il suo predecessore, Giovanni Leone, avvocato e giurista democristiano di Napoli, era stato sloggiato in seguito a una campagna diffamatoria devastante, condotta dalla coppia radical chic del giornalismo italiano (Camilla Cederna e Gianluigi Melega). Un referendum aveva schiacciato i partiti, sul tema del loro finanziamento pubblico, e i partiti decisero con cinismo di congedare un presidente poco amato e di eleggere un capo dello stato destinato alla simpatia populista. Pertini fece molte cose importanti, per esempio diede a Bettino Craxi l’incarico di formare il governo, ma nell’insieme, a forza di “svuotare gli arsenali e riempire i granai”, di aderire come una ventosa al mito calcistico di Enzo Bearzot e dei Mondiali dell’82, di scansare e scavalcare tutti i veri problemi politici e istituzionali del paese, di mettersi sempre dalla parte del vento dell’opinione pubblica, quel settennato fu un capolavoro di ipocrisia e di narcisismo. Forse siamo ingenerosi, e possiamo sbagliarci, ma non è di un prim’attore devoto al proprio mito che ha oggi bisogno la Repubblica.

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