Giornali e politica
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I grandi, il giornalino e vent’anni lancinanti di storia italiana
di Giuliano Ferrara | 30 Dicembre 2014 ore 06:05
Il premier nella conferenza stampa di fine d’anno è stato cauto, professionale, quando ha parlato di giornali. Preferisce Twitter per comunicare e critica in tempo reale i fascioni di Sky news su quanto sta dicendo, ma ha riconosciuto alla carta stanca e invecchiata un buon odore. Chissà quanto sincero, è stato gentile con un’industria da tutti giudicata nell’epoca del tramonto. Ma i giornali italiani come hanno vissuto le convulsioni politiche di questo ventennio cominciato con un governo Berlusconi e finito con un governo Renzi?
E’ importante chiarirlo, perché i giornali italiani sono due cose insieme, entrambe tipiche di ciò che si dice una classe dirigente: un fascio di criteri civili e culturali abbracciati da chi li fa; un coacervo di interessi, di umori politici, parapolitici e antipolitici da parte di chi ci mette i quattrini e li rischia alla ricerca di profitti e di influenza (principalmente banche, industrie e altri soggetti finanziari: i cosiddetti editori impuri). A tener conto dei due maggiori quotidiani, con Berlusconi tutto era abbastanza chiaro: Repubblica lo stroncava senza pietà e senza risparmio di colpi bassi, e rimbalzava sul Cav. e sulla sua celebre resilienza; il Corriere partecipava al gioco in forma più defilata, cercando una posizione terza e fuori della mischia quando le cose si presentavano in tutta la loro pesantezza di aspro conflitto civile, non senza partecipare di tanto in tanto, e con effetti spesso notevoli, al tiro al bersaglio. Vent’anni dopo, con Renzi, c’è stato un cambiamento: ora Repubblica appoggia il secondo caso di anomala presa del potere e, a parte i mugugni autorevolissimi del suo fondatore, è guidata dal direttore su una linea di condizionamento e di imbrigliamento del fenomeno rappresentato da un leader generazionale nuovo della sinistra, un tipo che ha idee e compie atti di riformismo liberale un tempo esorcizzati dal giornalone tribuna della gauche, con metodi spregiudicati e con l’appoggio sostanziale dello stesso suo anomalo predecessore, il vecchio Arcinemico della “nota lobby” (come Francesco Cossiga chiamava il gruppo De Benedetti); il Corriere invece, pur esprimendo varianti colte e credibili di critica politica e programmatica, specialmente con gli editoriali di Giavazzi e Alesina, tende a ricavarsi uno spazio cautamente antigovernativo fino al punto di augurarsi che il gruppetto sbandato di Beppe Grillo recuperi senso politico e si metta a disposizione di giochi elettorali utili per il Quirinale, per adesso condotti a carte coperte (d’altra parte un suo editorialista comunicò, dopo l’affermazione elettorale di Grillo, e solo dopo, di averlo addirittura apprezzato e votato in odio alla casta politica).
Vedremo che cosa ci riservi il futuro. Di sicuro c’è che la classe dirigente, intesa per quella società civile espressa anche dai giornali e dai loro editori, rende viva la democrazia delle opinioni, sempre legittime, ma non ha forte presa sulla democrazia dei fatti. C’è molta virtualità e poca effettualità nella relazione tra i giornali e l’Italia. E un foglio che abbia sostenuto, con le riserve del caso, la Repubblica dei partiti morente sotto i colpi del giudiziario, e poi gli anomali Berlusconi e Renzi, non lo troverete da nessuna parte se non qui, nelle nostre microdimensioni di mosca cocchiera. Può essere che sia un caso, può darsi che sia una spia di qualcosa di non così irrilevante. Un discorso da continuare, forse.