Chi si mena per il Quirinale. Nomi, spin, candidati, (2)

storie e metodi. Orientarsi sul dopo Napolitano.

Manuale anti veline

di Claudio Cerasa | 20 Novembre 2014

Romano Prodi. Esattamente come un anno e mezzo fa – ai tempi della prima candidatura al Quirinale – Romano Prodi oggi tiene a precisare (deve essere una specie di rito scaramantico) che la sua candidatura al dopo Napolitano semplicemente non esiste: “Non voglio né ho mai voluto arrivare al Colle”, ha detto pochi giorni fa al Corriere della Sera, usando più o meno le stesse parole profetiche dell’aprile 2013: “Ho già detto e lo ripeto: non sono interessato al Quirinale”. Detto e candidato. Nello schema di Matteo Renzi, schema che prevede un accordo strategico con Forza Italia (o meglio: con Berlusconi) per eleggere un presidente della Repubblica che possa resistere al fuoco dei franchi tiratori, il nome di Romano Prodi trova piena cittadinanza solo e soltanto in un’unica occasione: se il patto del Nazareno dovesse perdere consistenza e se l’unica soluzione possibile per eleggere il successore di Giorgio Napolitano dovesse essere quella di aderire allo schema già seguìto in Parlamento per la scelta (concordata tra Pd e M5s) di Alessio Zaccaria al Csm (537 voti) e Silvana Sciarra alla Consulta (630 voti). Il ragionamento non fa una piega e senza contare i grandi elettori che parteciperanno all’elezione del successore di Napolitano (sono 58, e sono quasi tutti di area governativa), a oggi il Pd e il Movimento 5 stelle possono disporre di 550 voti (407 il Pd, 143 M5s). Che sommati ai 33 di Sel e ai 15 senatori usciti dal 5 stelle fanno 598 (93 in più dei voti necessari per eleggere dalla terza votazione in poi il presidente della Repubblica). I teorici della carta Prodi non si trovano solo tra chi, come Civati, propone al 5 stelle di puntare sul Prof per scardinare il gruppo parlamentare del Pd. Ma anche tra chi, nel giro Renzi, teme che gli scricchiolii del Nazareno possano corrispondere a un ammutinamento improvviso del gruppo parlamentare. Nuovi 101 per riscattare la vecchia carica dei 101. E il Prof,, dicendo di non crederci, dimostra ovviamente di crederci. Numero di veline attendibili ricevute su Prodi: due, entrambe però sussurate con voce tremante.

Piero Fassino. Fra tutti i nomi suggeriti ai cronisti, il nome di Piero Fassino coincide con il candidato che più degli altri crede alla possibilità che la velina sul suo nome non sia solo una velina ma sia qualcosa di più. In altre parole: quasi nessuno crede che Fassino sia un candidato che abbia chance di finire nella rosa dei quirinabili, ma in compenso Fassino crede molto che il suo nome possa comparire magicamente – oplà – nell’elenco delle riserve della Repubblica renziana. E così Fassino si dà molto da fare. Rivendica, quando può, che questo governo non è solo il governo Leopolda ma è anche il governo Fassino. Sia perché il sindaco di Torino è stato il primo pezzo grosso della vecchia guardia dei Ds a suggerire il nome di Matteo Renzi a Palazzo Chigi già un anno e mezzo fa (e Fassino lo ripete ai suoi interlocutori con la stessa frequenza con cui ripete che, senza il suo sacrificio da segretario dei Ds, il Pd non sarebbe mai nato). Sia perché Fassino considera sue creature molti volti di primo piano arrivati a rappresentare l’Italia nell’èra Renzi (“Tu lo sai che Mogherini, Martina, Orlando e Pinotti sono figli miei, no?”). I renziani, diabolici, dicono che “Piero” non ha possibilità (sintesi del problema: “Non possiamo avere al Colle l’uomo dell’abbiamo una banca”) ma hanno fatto arrivare alle persone giuste la voce – psssss – che Fassino sia nella rosa. Sia per affetto nei confronti del sindaco (che negli ultimi sei mesi è stato candidato più o meno a tutto: dalla segreteria del Pd fino al ruolo di mister Pesc) sia perché sanno che Fassino ricopre una carica importante: la presidenza dell’Anci. E oggi che le città protestano, che i sindaci si incazzano e che i comuni (anche quelli renziani) tirerebbero in testa a Renzi la legge di stabilità, avere un presidente dell’Anci sognante e non ostile, anche se indipendente, fino a che il gioco regge, per il presidente del Consiglio è un’arma in più.

Roberta Pinotti. A differenza di tutti gli altri candidati che vivono nelle veline sul Quirinale, il nome di Roberta Pinotti è uno dei pochi che può considerarsi presente in una lista speciale, che salvo sorprese sarà parte integrante della lista che Renzi proporrà quando arriverà il momento di scegliere il successore di Napolitano. La lista in questione è quella dello stretto giro fiorentino renziano e il nome di Pinotti intercetta il gradimento dei più giovani renziani della prima ora, tutti convinti che se donna deve essere, il prossimo presidente della Repubblica, alla fine Pinotti sarà (a meno che Franceschini non compia qualche miracolo). Pinotti – ministro della Difesa, ottimi rapporti con Napolitano, buoni rapporti con l’establishment americano, stimata sia nel giro renziano sia nel giro franceschiniano sia nel giro diessino – è sostenuta da una delle correnti più importanti del Partito democratico che corrisponde al nome di Area Dem e l’accusa di inesperienza che molti osservatori riservano all’unico ministro donna del governo che abbia superato la soglia minima per essere eletta al Quirinale (Pinotti ha 53 anni) non trova sponde a Palazzo Chigi. Dove anzi il criterio della non eccessiva esperienza è considerato quasi un valore aggiunto: meno esperienza hai, più segnerai una rottura con il passato, meno sarà la tua tentazione di diventare un contropotere rispetto al potere di Palazzo Chigi. Sul percorso della Pinotti esiste un campo minato legato all’esito dell’inchiesta partita dalle colonne del Fatto quotidiano (e ripresa in Parlamento dal Movimento 5 stelle) sulla storia del presunto uso improprio di un aereo di stato da parte del ministro della Difesa. Renzi ha detto che quando si dovrà scegliere il successore di Napolitano i parlamentari dovranno essere bravi a non farsi condizionare dalla timeline di Twitter. Il nome di Pinotti resta dunque ancora in campo (anche a costo di utilizzarlo per coprire un’altra candidatura) ma è difficile che in questi giorni il presidente del Consiglio, non ascoltando se stesso, non abbia dato una scrollata alla sua timeline.

Mario Draghi. In Parlamento la chiamano l’arma di fine mondo e come tutte le armi di fine mondo vive nella negazione della sua possibile venuta. La velina sul nome Mario Draghi arriva principalmente dagli ambienti di centrodestra, e in particolare da Forza Italia: è una carta difficile, quasi impossibile, da mettere sul tavolo per una serie di ragioni pratiche. Renzi ha detto che vuole un politico, e Draghi non è un politico. Il mandato di Draghi in Bce scade il 31 ottobre 2019, e a meno che il fronte tedesco all’interno della Banca centrale europea non diventi egemonico non esiste (salvo questioni personali) una sola ragione per cui Draghi possa essere interessato a tornare in Italia. La velina Draghi continua però a girare vorticosamente e gira per una ragione molto semplice. Gli scenari per il Quirinale vanno studiati tutti e considerando che questo Parlamento è stato quello che già una volta non è riuscito a eleggere un presidente della Repubblica diverso da quello precedente (non era mai capitato prima nella storia) non è da escludere che anche questa volta il fuoco incrociato dei veti politici elimini politicamente tutti i possibili successori di Re George. E a quel punto, anche Renzi sarebbe di fatto commissariato; e una soluzione alla Ciampi (per la gioia di tutti i nemici del presidente del Consiglio) rischierebbe di essere inevitabile. La primogenitura dell’ipotesi Draghi al Quirinale è di Silvio Berlusconi, che già nel gennaio 2013 suggerì che il capo della Bce sarebbe stato un perfetto successore di Napolitano (Draghi smentì). Ma anche durante le trattative per le nomine dei nuovi commissari europei, alcuni renziani trasferitisi a Bruxelles colsero nelle parole riservate del presidente della Bce un’apertura possibile all’ipotesi del Quirinale (ma non esistono altri riscontri). Le veline dunque esistono anche su questo nome. E a differenza degli altri candidati non arrivano solo dall’Italia ma anche dall’estero, e soprattutto (birichini) dalla Germania. Titolo a tutta pagina di tre giorni fa del settimanale Die Zeit: “Draghi si trasferisce a Roma?”. Chissà.

Un democristiano a caso. E’ la categoria più affascinante. E’ la carta della disperazione. E’ una tesi che circola anche a Palazzo Chigi e che risponde a un ragionamento lineare. Sulla carta impeccabile: nel caso in cui dovessimo essere nel panico più totale e dovessimo ritrovarci con un gruppo parlamentare che nel segreto dell’urna non permetterebbe neanche a Madre Teresa di Calcutta di superare il fuoco incrociato dei franchi tiratori la soluzione, per scontentare tutti e quindi non accontentare nessuno, sarebbe quella di puntare sulle riserve della Repubblica delle balene. Il ragionamento è sofisticato: “Siccome Napolitano è comunista e dopo un comunista non può che esserci un democristiano, tocca trovare un democristiano che non dispiaccia né al Pd, né a Ncd, né a Forza Italia, né ovviamente alla chiesa, e che possa essere un buon punto di mediazione fra tutti i più imprevedibili i fuochi incrociati”. In cima alla speciale lista dei democristiani a caso il nome che si trova più in sintonia con il governo è quello di Pier Ferdinando Casini (ma anche Pierluigi Castegnetti e Luigi Zanda, e vi giuriamo che non ci stiamo inventando nulla). A livello statistico, le possibilità di Casini di arrivare al Quirinale non sono molto diverse dalle possibilità di Stefano Fassina di vincere il Nobel per l’Economia o dalle possibilità di Corrado Passera di diventare presidente degli Stati Uniti. Con malizia però i renziani hanno fatto arrivare a Casini la voce che qualcuno a Palazzo Chigi punta su di lui come successore di Napolitano. La voce lascia il tempo che trova ma si sa (vedi alla voce Finocchiaro) che di questi tempi per tenere la maggioranza compatta non c’è nulla di meglio che far capire alle persone giuste che un domani chissà cosa potrebbe magicamente succedere nella corsa per il Quirinale. (fine)

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