Malinconico realismo dell’America

Il paese che salvò il mondo e adesso lo sta lasciando solo

Un saggio di di Robert Kagan

La storia degli Stati Uniti è una continua lotta tra chi si rassegna alle cose come sono e chi prevede il pericolo dell’inazione. Dopo le tre guerre del Novecento, calde e fredde, siamo alle solite: la politica estera americana è tornata autoreferenziale

Quasi 70 anni fa un nuovo ordine mondiale, costruito dagli Stati Uniti e su di essi imperniato, nacque dalle macerie della Seconda guerra mondiale. Oggi quell’ordine mostra segni di frattura e forse rischia di crollare. La crisi tra Russia e Ucraina, e quella siriana, con la risposta internazionale tiepida, il rivolgimento generale nel medio oriente e nel Nordafrica, la crescita delle tensioni nazionaliste e di grande potenza in Asia orientale, l’avanzata mondiale delle autocrazie e la ritirata delle democrazie: prese una per una, si tratta di questioni non nuove e non ingovernabili. Ma nell’insieme sono un segno che qualcosa sta cambiando, e forse più rapidamente di quanto possiamo immaginare. Possono indicare la transizione a un diverso ordine mondiale o a un disordine mondiale  di un tipo non più visto dagli anni Trenta.

Se si sta spezzando un ordine mondiale costruito dall’America, non è perché l’America stia declinando: ricchezza, potere e influenza potenziale dell’America sono all’altezza delle sfide presenti. Non è perché il mondo sia diventato più complesso o intrattabile, il mondo lo è sempre stato. E non è semplicemente il prodotto di una stanchezza di fronte alle guerre. E’ abbastanza strano, ma si tratta di un problema intellettuale, una questione di identità e di fini da perseguire.

Molti americani e i loro leader politici, compreso il presidente Obama, hanno dimenticato o rigettato ciò su cui si è imperniata la politica estera americana negli ultimi settant’anni. In particolare, la politica estera americana è probabilmente in fase di allontanamento dal senso di responsabilità globale che equiparava gli interessi degli Stati Uniti con quelli di molte altre nazioni nel mondo, e si riavvicina all’idea di interessi nazionali più ristretti, il famoso piede di casa. E’ qualcosa che viene definito “isolazionismo”, ma non è questa la parola giusta. Più correttamente si deve parlare di una ricerca di normalità. Al centro del malessere americano sta il desiderio di dismettere gli inusuali gravami della responsabilità che si sono sobbarcati nella Seconda guerra mondiale e nella Guerra fredda le precedenti generazioni di americani, e di tornare a essere una nazione normale, più in sintonia con i propri bisogni che con quelli del vasto mondo.

Se è questo quel che vuole la maggioranza degli americani oggi, allora l’attuale periodo di rinserramento non sarà una pausa temporanea prima di un’inevitabile ripresa dell’attivismo globale. Sarà il marchio di una nuova fase nell’evoluzione della politica estera degli Stati Uniti. E poiché il ruolo dell’America nell’ordine mondiale è stato tanto pervasivo e potente, oltre il livello normale, comincerà un nuovo ciclo del sistema internazionale, che promette di essere non marginalmente diverso ma radicalmente diverso da quello conosciuto negli ultimi settant’anni. O gli americani saranno ricondotti alla comprensione illuminata del loro interesse nazionale, per considerare ancora una volta la loro sorte intrecciata con quella del resto del mondo, oppure sarà oscurata la prospettiva di un pacifico Ventunesimo secolo in cui gli americani e i loro princìpi possano prosperare.

PER CAPIRE DOVE SI DIRIGONO L’AMERICA E IL MONDO è utile ricordare a noi stessi che cosa siamo stati ovvero le scelte che gli americani hanno fatto decenni fa e le profonde conseguenze, che hanno cambiato il mondo, di queste scelte.

Per gli americani l’alternativa non è mai stata tra isolazionismo e internazionalismo. Con la loro spinta acquisitiva diretta alla prosperità e alla felicità, con il loro amore per il commercio, con la loro espansività economica e (nei primi tempi) territoriale, con la loro ideologia universalistica, gli americani non si sono mai rinchiusi fuori dal resto del mondo. Il Giappone Tokugawa e la Cina Ming furono isolazionisti. Gli americani sono sempre stati più simili alla Roma repubblicana o all’antica Atene, un popolo e una nazione in movimento.

Quando, circa settant’anni fa, la politica estera americana subì una trasformazione rivoluzionaria, la direzione non fu quella dall’isolazionismo all’internazionalismo. Ciò che gli americani avevano rifiutato prima della Seconda guerra mondiale era un coinvolgimento globale costante, con impegni verso le altre nazioni e responsabilità per il generale benessere mondiale. Questo era quello che i cosiddetti “internazionalisti” desideravano per gli Stati Uniti. Theodore Roosevelt, John Hay, Henry Cabot Lodge, Elihu Root, Henry Stimson, Woodrow Wilson  e molti altri pensavano che gli americani dovessero assumere un ruolo molto più rilevante negli affari mondiali, perché questo corrispondeva al loro crescente potere. Gli Stati Uniti erano diventati “sempre di più il perno dell’equilibrio nel mondo intero”, sosteneva Roosevelt, e dovevano comportarsi coerentemente con questo assunto. In effetti, a partire dalla guerra ispano-americana  per i primi due decenni del Ventesimo secolo, gli Stati Uniti perseguirono un più ampio e più profondo convolgimento rispetto a quanto fosse mai accaduto in precedenza, e il tutto culminò con l’invio di due milioni di soldati in Francia. Quando finì la Prima guerra mondiale Wilson, come Roosevelt prima di lui, ebbe l’ambizione di far giocare al paese un ruolo centrale negli affari mondiali. Sotto la pressione di tutti i governi europei del Dopoguerra, che volevano una spinta finanziaria per le loro economie e garanzie americane di sicurezza per proteggersi gli uni dagli altri, Wilson volle che gli Stati Uniti si impegnassero in un duraturo ruolo nel mondo. Il mondo, avvertì i cittadini, sarebbe “in preda a una assoluta disperazione” se gli americani lo abbandonassero. La Lega delle Nazioni di Wilson (ma la prima idea era stata di Roosevelt), sebbene cullata nel linguaggio idealistico dei princìpi universali e della sicurezza collettiva, era intesa prima di ogni altra cosa come il veicolo del potere e dell’influenza americani a sostegno di un nuovo ordine liberale.

Ma gli americani rifiutarono questa funzione. Delusi dai compomessi e dall’imperfezione del Trattato di Versailles, in lutto per la morte di centomila soldati, scettici sulla partecipazione americana alla Lega, e spinti dai repubblicani impazienti di sconfiggere Wilson e riconquistare la Casa Bianca, in maggioranza presero a opporsi non solo alla Lega ma anche a una complessiva visione internazionalista del ruolo americano globale. Non fu un irriflesso salto all’indietro verso una inesistente tradizione isolazionista. Fu la decisione deliberata di finirla con il crescente coinvolgimento dei due decenni precedenti, per adottare una politica estera di gran lunga meno impegnata, e soprattutto di evitare futuri interventi militari al di là dell’emisfero occidentale. Il successore repubblicano di Wilson promise, e il popolo americano espresse il suo consenso, quello che Warren Harding chiamò “un ritorno alla normalità”.

Negli anni Venti normalità non equivaleva a isolazionismo. Gli americani continuarono a commerciare, a investire e a viaggiare oltre i confini; la loro flotta era di una grandezza eguagliata solo da quella britannica, ed era estesa nell’Atlantico e nel Pacifico; i diplomatici degli Stati Uniti perseguivano accordi per il controllo della corsa agli armamenti e per la messa fuorilegge della guerra. Normalità voleva semplicemente dire che gli interessi dell’America si definivano come si definivano gli interessi delle altre nazioni. Cioè difendere la madrepatria, evitare coinvolgimenti oltreoceano, preservare l’indipendenza e la libertà di azione del paese, e creare prosperità domestica. I problemi dell’Europa e dell’Asia non riguardavano l’America, e potevano essere risolti, o lasciati insoluti, senza l’aiuto americano. Questo valeva anche per le questioni economiche. Harding voleva conseguire “il benessere americano prima di tutto”, e lo fece. Gli anni Venti furono di boom per l’economia americana, mentre le economie europee stagnavano.

A una grande maggioranza degli americani la normalità sembrò una risposta ragionevole nel mondo degli anni Venti, dopo l’enorme estensione di ruolo degli anni di Wilson. Non c’erano chiari pericoli all’orizzonte. La Repubblica di Weimar appariva come una democrazia fragile che poteva facilmente crollare piuttosto che  lanciare un altro tentativo di dominio continentale. La Russia bolscevica era sconvolta dalla guerra civile e dalla crisi economica. Il Giappone, sebbene crescesse in potere e ambizioni, era una fragile democrazia con un seggio nel consiglio permanente della Lega delle Nazioni. Per la maggior parte degli americani negli anni Venti il rischio più notevole non veniva da poteri stranieri ma da quegli sconsiderati “internazionalisti” e da quegli avidi banchieri e profittatori di guerra che volevano coinvolgere la nazione in conflitti ad essa estranei, che non la riguardavano affatto.

Questa corrente d’opinione era massiccia, profonda e bipartisan, e gli americani tennero la rotta della normalità per due decenni tondi. Lo fecero anche se l’ordine mondiale, non più sostenuto dalla vecchia combinazione di potere navale britannico e un equilibrio dei poteri relativamente stabile in Europa e in Asia, cominciava a franare, e alla fine crollò.  L’invasione giapponese in Manciuria, nel 1931; l’ascesa al potere di Hitler nel 1933; l’invasione dell’Etiopia da parte dell’Italia di Mussolini nel 1935; il riarmo tedesco in Renania, e la partecipazione congiunta di tedeschi e italiani alla guerra civile spagnola nel 1936; l’invasione della Cina centrale da parte del Giappone nel 1937; l’assorbimento dell’Austria nel Reich hitleriano, seguita dall’annessione e poi dalla conquista della Cecoslovacchia nel 1938 e nel 1939: tutti questi avvenimenti turbarono e in qualche caso crearono irritazione negli americani. Non erano all’oscuro di quanto stava succedendo. Anche allora l’informazione viaggiava con rapidità e si espandeva largamente, i giornali e i cinegiornali erano ricchi di servizi in cui si raccontava l’una o l’altra crisi. Racconti sui bombardieri di precisione di Mussolini che colpivano gli etiopi armati di lance; il bombardamento dell’aviazione tedesca su Guernica; l’ondata di stupri, saccheggi e massacri da parte dei giapponesi a Nanchino: tutto ciò suscitava orrore ed era considerato riprovevole. Ma non erano ragioni capaci di giustificare un coinvolgimento degli Stati Uniti. Al contrario, erano altrettanti motivi per restare fuori da ogni coinvolgimento. Più le cose volgevano al peggio nel mondo, più disperata si presentava la situazione, meno gli americani avevano intenzione di farsi implicare in quanto avveniva. Si credeva decisamente che gli Stati Uniti non avevano interessi vitali in gioco in Manciuria, Etiopia, Spagna o Cecoslovacchia.

La verità è che non era chiaro che gli Stati Uniti avevano interessi vitali dovunque fuori dell’emisfero occidentale. Perfino dopo l’invasione tedesca della Polonia nel 1939, con lo scoppio di un conflitto generale europeo che seguì, rispettati pensatori strategici americani, fieri del loro “pensiero realista”, sicuri di dover “bandire altruismi e sentimentalismi” dalla loro analisi, “concentrati intensamente sull’interesse nazionale”, diedero il loro parere in questi termini: con due oceani e una forte flotta interposta tra l’America e le altre grandi potenze del mondo, gli Stati Uniti erano invulnerabili. Era escluso come letteralmente impossibile, per esempio, un attacco giapponese alle isole Hawaii. Il senatore repubblicano Robert A. Taft si diceva fiducioso nel fatto che nessun paese sarebbe stato “abbastanza stupido” da attaccare gli Stati Uniti “dalla distanza di migliaia di miglia attraverso l’oceano”.

Né gli Stati Uniti avrebbero patito terribilmente se la Germania nazista ce l’avesse fatta a conquistare l’Europa intera, inclusa la Gran Bretagna, ciò che dal 1940 i realisti considerarono un approdo certo. Taft non vedeva perché gli Stati Uniti non potessero negoziare su normali linee diplomatiche e commerciare con un’Europa dominata dalla Germania nazista, esattamente come avevano fatto con l’Europa guidata da Inghilterra e Francia. Lo storico Howard K. Beale scriveva che “le nazioni non commerciano perché amano i rispettivi governi ma nella misura in cui considerano desiderabile lo scambio dei beni”.

Chi diceva queste cose era bollato con la definizione spregiativa di “isolazionista”, ma come ha poi precisato Hans Morgenthau, essi credevano all’epoca di essere nella linea della “tradizione realista della politica estera americana”. Gli Stati Uniti non dovevano “girare il mondo come un Cavaliere errante”, ammoniva Taft, “proteggendo la democrazia e modelli ideali di buona fede e andando all’assalto dei mulini a vento del fascismo come un Don Chisciotte”. Taft insisteva sulla necessità di considerare il mondo per quello che era, non nella rappresentazione degli idealisti. La guerra europea era il prodotto “di animosità nazionali e razziali” che erano esistite “per secoli” e avrebbero continuato a esistere “per i secoli futuri”, così argomentava il senatore. Per vincere la guerra, gli Stati Uniti avrebbero dovuto inviare oltreoceano milioni di soldati, impegnarsi in uno sbarco anfibio impossibile approdando su spiagge difese dalle forze tedesche, e poi marciare attraverso l’Europa contro la più forte armata del mondo. Al solo pensiero, si trattava di cosa inconcepibile. Per quanto volessero aiutare l’Europa, quindi, gli americani “non avevano il potere, se anche ne avessero avuto la voglia, di essere i suoi salvatori”.

Questa visione era tanto dominante che Franklin Roosevelt passò i suoi primi anni da presidente contenendo i suoi istinti internazionalisti e augurandosi di riuscire a tenere l’America fuori da un’altra guerra: “Odio la guerra!”, tuonò in un famoso discorso del 1936. Dopo Monaco, però, entrò nel panico, sentendo che le potenze occidentali, Gran Bretagna e Francia, avevano perduto la volontà di fronteggiare Hitler. E così cominciò a provare a mettere in guardia gli americani da quella che considerava una incipiente minaccia. Ma era difficile contrastare la ferrigna analisi dei pensatori realisti. Roosevelt non poteva provare che la sicurezza americana era direttamente messa in questione da quanto accadeva in Europa. Non gli rimase che sollevare una questione che faceva appello più al sentimento e all’idealismo che a dimostrabili minacce per la madrepatria.

Anche se gli Stati Uniti non erano direttamente minacciati da un attacco militare, argomentò Roosevelt, se si fosse consentito a Hitler, Mussolini e al Giappone imperiale di fare come volevano, il mondo sarebbe divenuto “un luogo disordinato e pericoloso da vivere, e questo sì, valeva anche per gli americani”. L’America sarebbe diventata “un’isola solitaria” in un mondo dominato dalla “logica della forza”. Le “istituzioni della democrazia” sarebbero state messe a rischio anche se si fosse preservata la sicurezza dell’America, perché il paese avrebbe dovuto diventare un accampamento militare allo scopo di difendersi. Roosevelt chiese con insistenza agli americani di guardare oltre la loro immediata sicurezza fisica. “Arriva un momento negli affari pubblici”, disse, “in cui gli uomini si devono preparare a difendere non solo le loro case ma i princìpi di fede e umanità sui quali sono fondate le loro chiese, i loro governi e la loro stessa civilizzazione. La difesa della religione, della democrazia e della buona fede tra le nazioni è una sola lotta. Per salvare una cosa dobbiamo prepararci a salvarle tutte”.

Questi argomenti, con la caduta della Francia e la Battaglia d’Inghilterra, aiutarono a convincere gli americani che c’era qualcosa in gioco nel risultato del conflitto in Europa, ma non li convinsero a entrare in guerra. La decisione fu presa soltanto dopo Pearl Harbor. L’attacco giapponese, la dichiarazione di guerra di Hitler che ne seguì, e l’entrata in guerra dell’America con un coinvolgimento totale in Europa e in Asia, furono un trauma per gli americani, specialmente per quelli che avevano una posizione di potere. Ciò che era stato considerato impossibile si rivelò possibile, e assiomi a lungo tenuti per certi intorno alla sicurezza americana in un mondo perturbato crollarono in una sola giornata.

GLI AVVENIMENTI DEL 1941 PROVOCARONO un ripensamento dalla base non solo della strategia globale americana ma anche del modo di definire gli interessi nazionali. Mentre portavano guerra a Germania e Giappone, Roosevelt e i suoi consiglieri cominciarono a pensare come avrebbe dovuto costruirsi il mondo del Dopoguerra, e presero come modello e guida la lezione che tirarono dai due decenni precedenti.

In primo luogo c’era il problema della sicurezza. L’attacco giapponese aveva dimostrato che, nonostante i mari vasti e una forte flotta, una adeguata difesa dagli attacchi non era garantita. Più in generale ci fu la realizzazione, o meglio la riscoperta, di una vecchia certezza: che l’ascesa di una potenza egemonica ostile nel continente eurasiatico alla fine poteva minacciare la basilare sicurezza americana non meno che il benessere economico della nazione. Come corollario valeva la “lezione di Monaco”: chi era potenzialmente aggressivo in Eurasia doveva essere fermato prima che diventasse troppo forte, e questo per evitare lo scoppio di una guerra generalizzata.

Altra lezione: gli Stati Uniti avevano un interesse negli sviluppi politici in Eurasia. Walter Lippmann sostenne che gli americani, per godere insieme la “sicurezza fisica” e la preservazione del loro “modo di vivere liberi”, dovevano garantirsi che “sull’altra sponda dell’Atlantico” restassero al potere democrazie “amiche” e “leali”. Per vent’anni il popolo americano aveva snobbato “la richiesta di Woodrow Wilson affinché nel mondo fosse preservata la democrazia”, disse Lippmann, ma Wilson aveva avuto ragione. Sotto il controllo di “liberi governi le sponde e le acque dell’Atlantico” erano divenute “il centro geografico della libertà umana”. La Carta Atlantica e le Quattro Libertà di Roosevelt riflettevano il riemergere della convinzione che il buono stato della democrazia nel mondo non era solo desiderabile in sé, ma una cosa importante per la tutela della sicurezza americana. 

Poi c’era l’economia mondiale. Negli anni Venti e Trenta gli Stati Uniti avevano cercato rimedi soprattutto domestici per la Grande Depressione, aumentando le tariffe commerciali, cessando di prestare denaro all’estero, rifiutando di unirsi ad altre nazioni in una comune politica monetaria, e proteggendo in generale l’economia americana nell’indifferenza per l’economia mondiale. Nel 1941 però Roosevelt e i suoi consiglieri conclusero che la prosperità domestica e la sicurezza dipendevano entrambe da un’economia mondiale in buona salute. La povertà e il disordine economico avevano avuto un ruolo decisivo nell’ascesa di Hitler e dei bolscevichi. La colpa in gran parte era degli Stati Uniti, perché pur essendo la potenza economica dominante negli anni Venti e Trenta, non avevano giocato un ruolo responsabile e costruttivo nella stabilizzazione dell’economia globale.

Infine c’era la questione del consenso pubblico intorno al coinvolgimento globale. Negli anni Venti e Trenta gli americani si erano sentiti autorizzati dai loro leader politici, e anche incoraggiati, a credere che il paese fosse immune dai guai del mondo. Non poteva ripetersi una simile situazione. I cittadini non dovevano più considerare questioni che si svolgevano a migliaia di miglia di distanza come irrilevanti per loro. Per Roosevelt stava diventando una delle più grandi sfide del Dopoguerra l’assicurare il sostegno popolare a un ruolo degli Stati Uniti nel mondo molto più rilevante e coerente. Agli americani doveva essere chiaro che, come scrisse Reinhold Niebuhr nell’aprile del 1943, “i problemi del mondo non sarebbero stati risolti se l’America non avesse accettato l’intera sua parte di responsabilità nel risolverli”.

QUESTA PARTE DI RESPONSABILITA’ ERA COSA GROSSA. Convinti che la Seconda Guerra mondiale non fosse il prodotto di singoli fatti accidentali bensì del crollo generale dell’ordine mondiale, politico, economico e strategico, i leader degli Stati Uniti si attrezzarono per erigere e difendere un nuovo ordine che fosse durevole. Questa volta doveva essere un ordine costruito intorno al potere economico, politico e militare dell’America. Gli europei si erano mostrati incapaci di mantenere la pace. L’Asia era del tutto instabile per parte sua. Un qualsiasi nuovo ordine dipendeva dagli Stati Uniti. E sarebbe diventato il perno di un nuovo sistema economico capace di incoraggiare il libero commercio e di provvedere assistenza finanziaria e prestiti alle nazioni che combattevano per restare a galla. Bisognava attivarsi in modo sostanziale nell’occupazione e nella trasformazione delle potenze vinte, assicurandosi che una forma di democrazia mettesse radici al posto delle vecchie dittature che avevano portato alla guerra queste nazioni. L’America avrebbe anche dovuto garantirsi una preponderanza nella forza militare e, quando necessario, impiegare un potere sufficiente a stabilizzare e assicurare il corso delle cose in Europa, in Asia e in medio oriente.

La forza militare giocava un ruolo centrale nei calcoli di Roosevelt e dei suoi consiglieri nel progetto di stabilire e difendere un nuovo ordine mondiale. “La pace deve essere mantenuta con la forza”, insisteva Roosevelt. Non c’era “alcun altro mezzo”. Il presidente anticipò che una forza di occupazione americana di un milione di effettivi sarebbe stata necessaria per mantenere la pace in Europa, per almeno un anno e forse per più tempo. Durante la guerra lo Stato Maggiore programmò di insediare basi militari nel mondo, “in aree ben distanziate dagli Stati Uniti”, in modo che qualunque conflitto eventuale si svolgesse “più vicino al nemico” piuttosto che in territorio americano.

Ovviamente Roosevelt si augurava di non dover dislocare oltreoceano, a ripetizione e su larga scala, forze di terra, poiché aveva paura che la gente non lo avrebbe sostenuto. Ma riteneva prevedibile che per lo meno gli Stati Uniti avrebbero dovuto inviare l’aviazione e la flotta ogniqualvolta richiesti dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Come rilevò Cordell Hull alla conferenza di Dumbarton Oaks nel 1944, la forza militare americana doveva essere “disponibile prontamente, in misura adeguata, e con certezza”. Roosevelt capì che le richieste del Consiglio di sicurezza sarebbero state tanto frequenti che sarebbe stato sconsigliabile far passare la faccenda al Congresso per l’approvazione di volta in volta. Il Consiglio di sicurezza doveva avere “il potere di agire velocemente e decisivamente per mantenere la pace con la forza, se necessario”, spiegò Roosevelt, e così il rappresentante americano doveva avere una procura che gli garantisse l’autorità per agire tempestivamente.

Roosevelt sostenne le Nazioni Unite ma non credeva granché nella sicurezza collettiva. La potenza americana, ne era convinto, era la chiave di tutto. Vedeva le Nazioni Unite come Wilson vedeva la Lega delle Nazioni, come un veicolo per il coinvolgimento globale degli Stati Uniti. In effetti, come ha notato lo storico Robert Dallek, per Roosevelt le Nazioni Unite erano intese in parte come una cortina di “oscuramento” del ruolo centrale della potenza americana da giocarsi nel nuovo ordine mondiale: oscuramento, questo è il punto, prima di tutto rispetto all’opinione pubblica americana.

II.

Questa nuova grande strategia americana per il mondo post bellico non avrebbe potuto essere un allontanamento più radicale dalla “normalità”. I suoi obiettivi non erano solo la difesa del territorio, la prosperità e l’indipendenza della sovranità del popolo americano, ma anche la promozione di un ordine mondiale liberale che avrebbe difeso non solo gli interessi americani ma anche quelli di molte altre nazioni. L’emergere dell’egemonia eurasiatica avrebbe minacciato le altre nazioni molto prima degli Stati Uniti, per esempio, eppure gli americani accettavano ora la responsabilità principale di prevenire tali minacce. La nuova strategia non era né generosa né altruista. I funzionari americani credevano che fosse nell’interesse degli Stati Uniti. Ma neppure si sposava con la classica definizione di “interesse nazionale”. Come ha spiegato Dean Acheson, gli americani dovevano imparare a “operare secondo un modello di responsabilità più grande dei propri interessi”. Era la vera rivoluzione della politica estera americana.

La nuova strategia non era diretta a nessuna nazione in particolare e neppure a una specifica minaccia – almeno non all’inizio. L’Unione sovietica non era ancora emersa come l’antagonista del nuovo ordine globale. Durante la Seconda guerra mondiale, Roosevelt e la gran parte degli altri alti funzionari si aspettavano una cooperazione reciproca con i sovietici dopo la guerra e, fino al 1945, Acheson ancora credeva nella possibilità di collaborare con Mosca. Invece di rispondere a una minaccia in particolare, la nuova grande strategia mirava a prevenire il collasso generale dell’ordine mondiale, il che significava sostenere un sistema economico internazionale aperto, applicando princìpi internazionali di comportamento, aiutando, dove possibile, i governi democratici, incoraggiando un minimo rispetto dei diritti umani, definiti dalla Carta delle Nazioni Unite, e promuovendo generalmente un mondo adatto agli americani e a coloro che condividevano i loro valori.

Questo ampio insieme di obiettivi e responsabilità cambiò completamente l’orientamento della politica estera americana. Invece di indietreggiare, aspettando che le minacce si manifestassero, per poi rispondere e respingerle, la nuova strategia richiedeva un coinvolgimento costante e invasivo negli affari mondiali. La nuova strategia economica puntava a scoraggiare i potenziali aggressori prima che diventassero tali o, come diceva Roosevelt, a “finire le guerre future strangolandole prima che si sviluppassero”.

La nuova posizione più protratta in avanti diventò particolarmente marcata quando l’èra post bellica sfociò nella Guerra fredda. Il piano Marshall puntava a sostenere le economie dell’Europa occidentale prima che queste soccombessero al comunismo. La dottrina Truman puntava a incoraggiare Grecia e Turchia prima che cadessero nel sovvertimento comunista. Quando la rivoluzione trionfò in Cina nel 1949, i critici americani contestarono l’Amministrazione Truman per non aver fatto abbastanza per prevenirla – un’accusa, giusta o no, che nessuno avrebbe mai pensato di avanzare prima della Seconda guerra mondiale. L’inattesa invasione nordcoreana della Corea del Sud scatenò il panico a Washington e, nella mente di Truman e dei suoi consiglieri, si rafforzò la “lezione di Monaco”. Da quel momento in poi gli Stati Uniti sarebbero dovuti restare vigili e pronti ad agire, con la forza, ovunque nel mondo.

Si trattava esattamente di ciò che i critici degli anti interventisti avevano chiesto di fare negli anni Trenta. Taft, un uomo ragionevole e intelligente, aveva previsto che, una volta inviate in guerra, le forze americane non sarebbero più tornate in patria. La vittoria avrebbe rappresentato sia una maledizione sia una benedizione. Le truppe americane, aveva ammonito Taft, “avrebbero vigilato in Europa mantenendo l’equilibrio di potenza con la forza delle armi” indefinitamente. Beale aveva avvisato che, se gli obiettivi erano la libertà e la democrazia, come sosteneva Roosevelt, allora gli Stati Uniti avrebbero dovuto “sostenere la democrazia con le Forze armate nel continente europeo” mantenendo “una flotta navale grande abbastanza per la libertà dei mari… in tutti gli oceani del mondo”. Era la ricetta allo stesso tempo per la bancarotta e il militarismo in patria e per “l’imperialismo puro” all’estero.

Roosevelt e gli altri statisti speravano all’inizio che gli Stati Uniti non avrebbero fatto tutto da soli.

Roosevelt pianificò di condividere una gestione globale tra i “Quattro poliziotti” – Stati Uniti, Gran Bretagna, Unione sovietica e Cina. E Truman nel 1945 era determinato a tagliare il budget per la Difesa riportando a casa il maggior numero possibile di truppe. Eppure, nel giro di due anni dopo la fine della guerra, il nuovo ordine mondiale stava già barcollando sull’orlo del collasso insieme con le speranze per una cooperazione globale con le altre grandi potenze. In breve tempo, la Gran Bretagna dimostrò di non essere in grado di svolgere il suo ruolo storico, nemmeno nel Mediterraneo. La Cina sprofondò nella guerra civile, verso la rivoluzione. E l’Unione sovietica si manifestò non come sostenitore del nuovo ordine mondiale, bensì, agli occhi degli americani, come il suo principale antagonista. Il risultato fu la desolante presa di coscienza che gli Stati Uniti avrebbero dovuto sostenere la maggior parte dei costi, proprio come Taft aveva pronosticato. Come avrebbe detto Acheson in seguito, gli Stati Uniti sarebbero stati la “locomotiva alla guida dell’umanità”, mentre il resto del mondo sarebbe stato “la cambusa”.

Roosevelt era sempre preoccupato dal fatto che il popolo americano non avrebbe mai accettato un simile ruolo globale, così costoso e senza termine. Tre mesi prima di morire, durante il suo ultimo discorso sullo Stato dell’Unione nel gennaio del 1945, tentò di mobilitare il popolo per l’impegno che lo attendeva. “Nella nostra delusione dopo l’ultima guerra”, ricordò agli americani, “abbiamo abbandonato la speranza del raggiungimento graduale di una pace migliore perché non  abbiamo avuto il coraggio di assumerci le nostre responsabilità in un mondo, a dire il vero, imperfetto. Non dobbiamo permettere che ciò accada di nuovo, o dovremo seguire ancora una volta la stessa tragica strada – la strada per una Terza guerra mondiale”. 

ERA L’ULTIMA VOLTA, PRIMA DEL 1989, che uno statista americano avrebbe pensato alle responsabilità globali dell’America senza far riferimento all’Unione sovietica o al comunismo. L’arrivo della Guerra fredda, la concitata risposta americana alle politiche sovietiche nell’Europa orientale e in medio oriente e la ricorrente paranoia statunitense a proposito del pericolo comunista in patria furono la risposta ai timori di Roosevelt circa il sostegno del popolo. A molti americani, il comunismo sovietico appariva come una minaccia ancor più diretta al loro stile di vita rispetto a Hitler o al nazismo.

Combatterlo, quindi, rappresentava una strategia più facile da comprendere e sostenere piuttosto che spalleggiare “responsabilità in un mondo, di fatto, imperfetto”. Sebbene ci fosse un dibattito intenso e contraddittorio sulla politica estera durante la Guerra fredda, e nonostante il dissenso di alcuni critici del contenimento anti comunista, specialmente durante e subito dopo la guerra in Vietnam, la gran parte degli americani era largamente favorevole al contenimento del comunismo. Verso la fine degli anni Quaranta e Cinquanta, garantirono miliardi di dollari per la ricostruzione europea stringendo alleanze militari con vecchi nemici, come il Giappone, la Germania e altre potenze europee che un tempo avevano disdegnato e verso cui fino ad allora non avevano mai avuto fiducia. Estesero anche le garanzie nucleari per scoraggiare un’invasione convenzionale dell’Europa da parte dei sovietici, rendendoli volontariamente obiettivi per le armi nucleari di Mosca in caso di una guerra europea. Negli anni Cinquanta e Sessanta, spesero oltre il dieci per cento del pil per la Difesa. Schierarono centinaia di migliaia di truppe oltreoceano, senza limiti di tempo, in Europa e Asia – quasi un milione durante gli anni di Eisenhower. Combatterono guerre costose in Corea e Vietnam, con risultati incerti e non soddisfacenti. 

Giustificare tutto in termini di lotta al comunismo potrebbe essere stato, prendendo in prestito la frase di Acheson, “più chiaro della verità”, ma funzionò. La paura del comunismo, assieme a quella dell’Unione sovietica come minaccia geopolitica, permise a gran parte degli americani e dei politici statunitensi di vedere ogni politica diretta contro le forze comuniste, ovunque nel mondo, concretamente al servizio degli interessi vitali della nazione. Nel 1965, anche David Halberstam ritenne che prevenire una vittoria comunista in Vietnam fosse “vitale per il nostro interesse nazionale”. Quindici anni dopo, Jimmy Carter, che assunse la carica ammonendo, non del tutto senza ragioni, contro la “disordinata paura del comunismo”, fu costretto ad annunciare decisi cambiamenti politici in risposta all’invasione sovietica dell’Afghanistan, un paese che nemmeno due americani su un milione sarebbero stati in grado di individuare sulla mappa e dove nessun diretto interesse americano era identificabile, oltre al fatto che lì c’erano i sovietici. Sì, il sentimento generale se n’era andato, gli Stati Uniti avevano assunto responsabilità globali senza precedenti, ma lo avevano fatto perché gli interessi americani erano minacciati direttamente da sfide globali senza precedenti.

Così gli americani per più di quarant’anni furono decisi a sostenere la costosa ed estesa politica estera che Roosevelt e i suoi consiglieri avevano ideato – probabilmente molto più di quanto loro stessi idearono – e i risultati furono straordinari. Nella metà del secolo che seguì la Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti crearono, difesero e migliorarono con successo un nuovo ordine mondiale liberale, ritagliando un vasto “mondo libero” entro il quale un’èra di pace e prosperità senza precedenti fiorì nell’Europa occidentale, in Asia orientale e nell’emisfero occidentale. Sebbene le tensioni tra gli Stati Uniti e l’Unione sovietica raggiungessero a volte livelli pericolosi, il periodo fu caratterizzato soprattutto dalla pace tra le grandi potenze. Gli Stati Uniti e l’Unione sovietica non arrivarono allo scontro e, cosa ugualmente importante, la presenza americana in Europa e Asia orientale pose fine alle guerre che avevano segnato entrambe le regioni dalla fine del Diciannovesimo secolo. Il numero di democrazie nel mondo crebbe enormemente. Il sistema commerciale internazionale si estese e si approfondì. La gran parte del pianeta visse in una prosperità senza precedenti. Non mancarono disastri o quasi-disastri, così come le due costose guerre in Asia – ma la strategia fu vincente, tanto che l’impero sovietico alla fine collassò o si ritirò di sua volontà, pacificamente, sotto la pressione del successo economico e politico dell’occidente, e l’ordine liberale si estese fino a includere il resto d’Europa e gran parte dell’Asia. Tutto questo fu il risultato di molte forze – l’integrazione politica ed economica dell’Europa, il successo di Giappone e Germania, e l’emergere di altre economie asiatiche di successo – ma nessuna di queste sarebbe stata possibile senza la volontà degli Stati Uniti di giocare un ruolo abnorme e inusuale come difensore dell’ordine mondiale liberale.

L’ABILITA’ AMERICANA DI GIOCARE QUESTO RUOLO non fu tanto dovuta alle virtù speciali del popolo americano, bensì ad alcuni vantaggi notevoli che misero gli Stati Uniti in una situazione storica unica. Il vantaggio più importante era la geografia. Per secoli, i campi di battaglia dei conflitti del mondo erano stati l’Europa, l’Asia e il medio oriente, dove poteri molteplici condividevano le stesse frontiere, si contendevano il primato, e si sfidavano in confronti militari senza fine. Quando gli Stati Uniti emersero come grande potenza alla fine del Diciannovesimo secolo, loro soltanto potevano godere della fondamentale sicurezza in un’area in cui erano già egemoni incontrastati. Questo, insieme con la sua ricchezza e una popolazione numerosa, diede agli Stati Uniti la possibilità di inviare in massa le sue forze armate a grandi distanze, in prolungate missioni militari. Permise anche agli Stati Uniti, quando volevano, di stanziare grandi contingenti permanentemente oltreoceano. E avrebbero potuto fare tutto ciò senza restare vulnerabili di fronte a una potenza vicina.

Nessun’altra nazione nel mondo è mai stata in una posizione tanto vantaggiosa. Anche l’altra grande superpotenza insulare, la Gran Bretagna, era troppo vicina al continente europeo per essere invulnerabile agli attacchi, specialmente quando gli aerei e i missili a lunga gittata divennero strumenti bellici diffusi. Né la Gran Bretagna riuscì a mettere in sicurezza i suoi bisogni strategici: prevenire la comparsa di un egemone nel continente. Sebbene sia stata in grado per due secoli di mantenere e gestire un impero oltreoceano, la Gran Bretagna fallì nel prevenire l’avvento dell’egemonia tedesca due volte nel Diciannovesimo secolo, conducendo a due guerre devastanti che alla fine vanificarono la potenza britannica. La Gran Bretagna ha fallito perché ha provato a giocare il ruolo del bilanciere in Europa “dall’estero”. La sua principale preoccupazione è sempre stata la difesa delle estreme periferie dell’impero e ha così scelto, quando possibile, di restare lontana dall’Europa. L’incapacità o la mancanza di volontà dei britannici di dispiegare un numero sufficiente di truppe di terra sul continente, o almeno di garantire che queste potessero giungere velocemente in caso d’emergenza, portò i potenziali aggressori a calcolare che la forza militare britannica non sarebbe giunta in tempo o non sarebbe giunta affatto.

Dopo la Seconda guerra mondiale, il solo vantaggio geografico degli americani rese possibile una strategia globale senza precedenti. Gli Stati Uniti furono in grado di spostarsi oltre la tradizionale difesa nazionale e oltre l’“equilibrio offshore”. Sono stati in grado di diventare sia una potenza europea sia una potenza asiatica, con truppe stanziate permanentemente “on-shore” in entrambi i teatri contemporaneamente. La presenza delle truppe americane ha fatto sì che i potenziali aggressori non dubitassero del fatto che gli Stati Uniti avrebbero combattuto se gli alleati fossero stati attaccati. Per i successivi settant’anni, la presenza americana ha garantito una pace e una stabilità generali in due regioni che per almeno un secolo avevano conosciuto un conflitto quasi costante tra grandi potenze.

Allo stesso modo fu notevole il livello di generale accettazione del potere americano. Ancora, il motivo aveva molto più a che vedere con la potenza e la geografia piuttosto che con l’affinità ideologica. Era vero che per molte nazioni nel mondo gli Stati Uniti sembravano essere un egemone relativamente bendisposto. Ma la reale motivazione geopolitica fu che le altre nazioni affrontarono minacce più grandi e immediate dai loro vicini che dai lontani americani. Quando i loro vicini minacciarono sempre di più, guardarono agli Stati Uniti come partner naturale – incoraggiati dalla loro abilità di proiettare la propria potenza per difenderli, ma anche dalla loro distanza.

Gli Stati Uniti infatti violavano alcune regole cardinali delle relazioni internazionali. Per decenni, i realisti avevano creduto che la stabilità e la pace nel mondo poessero solo dipendere da un equilibrio di potenze multipolare, un “concerto” di nazioni in equilibrio precario in seno a un sistema che tutti gli attori guardavano come necessario e legittimo – come l’Europa negli anni del Congresso di Vienna. Questo era il mondo con cui Henry Kissinger si sentiva a suo agio e che prevedeva, anche negli anni Sessanta, fosse dietro l’angolo. L’unipolarità era considerata intrinsecamente instabile e di vita breve, perché altre grandi potenze si sarebbero sempre raggruppate tra loro per bilanciare un’altra potenza diventata troppo forte – come era successo in Europa in seguito all’affermarsi di Francia e Germania nel Diciannovesimo e nel Ventesimo secolo. Richard Nixon esternò questa che considerava una realtà lapalissiana in un discorso, senza dubbio scritto sotto l’influenza di Kissinger, nel 1972. “Dobbiamo ricordare”, disse Nixon, che “l’unico momento nella storia del mondo in cui abbiamo avuto un esteso periodo di pace è stato quando c’era equilibrio tra le potenze. E’ quando una nazione diventa infinitamente più forte dei suoi potenziali avversari che il pericolo di guerra aumenta. Così io credo in un mondo dove gli Stati Uniti sono potenti. Penso che sarà un mondo migliore e più sicuro quello in cui Stati Uniti, Europa, Unione sovietica, Cina e Giappone sono forti e in salute, ciascuno bilanciando l’altro”. Ma gli Stati Uniti stavano già confutando questa tesi.

L’ampia accettazione della potenza americana, meglio dimostrata dal suo vasto numero di alleati e dall’assenza di nazioni forti al fianco dell’Unione sovietica, creò una situazione unica al mondo. Nessun’altra nazione nella storia aveva mai giocato un ruolo simile su scala globale, e forse nessun’altra avrebbe potuto. Una condizione che non si sarebbe potuta conformare a una teoria perché non replicabile. La geografia rese possibile agli Stati Uniti di giocare un ruolo unico al mondo, ma come hanno dimostrato gli anni Venti e Trenta, l’interrogativo sulla sua volontà di sobbarcarsi questo compito spettava solo al popolo americano. Nessuno chiese loro di rivestire questo ruolo assumendo una posizione anomala rispetto agli affari mondiali. Durante la Guerra fredda lo fecero prima di tutto per paura del comunismo. Ma cosa sarebbe accaduto una volta scomparse l’Unione sovietica e la minaccia comunista? La domanda è sembrata controversa per quaranta angosciosi anni, quando nessuno davvero si aspettava che l’Unione sovietica abbandonasse la competizione geopolitica. Ma la caduta imprevista dell’impero sovietico e il collasso del comunismo internazionale nel 1989 inevitabilmente sollevarono nuove domande su come definire l’obiettivo dell’America e i suoi interessi in assenza di una minaccia evidente. Improvvisamente, gli americani erano tornati dove Roosevelt li aveva lasciati all’inizio degli anni Quaranta, quando la sfida era stata quella di evitare gli errori degli anni Venti e Trenta. Ma qualcuno si sarebbe ricordato la grande strategia originale, congegnata subito prima che l’Unione sovietica si manifestasse per dominare il pensiero strategico americano? Sarebbe stata ancora rilevante l’originaria grande strategia americana alla fine del Ventesimo secolo? Oppure, come il politologo Robert Osgood si chiedeva negli anni Cinquanta, gli americani “sarebbero diventati tanto paralizzati dalle loro paure del comunismo” da dimenticare “quello per cui sono a favore nella loro ossessione per quello cui sono contro”?                     

III.

Quando finì la Guerra fredda, molti si convinsero che gli Stati Uniti potessero infine liberarsi dalle enormi responsabilità globali che avevano sostenuto per più di quarant’anni. Come negli anni Venti, il mondo all’inizio degli anni Novanta sembrava sufficientemente sicuro. L’ex Urss era in una fase di collasso economico e politico; la Cina, dopo il massacro di piazza Tiananmen, era diplomaticamente ed economicamente isolata. La preoccupazione maggiore dell’America era il boom dell’economia giapponese che, come sarebbe poi diventato chiaro, stava per cadere in un ventennio di stagnazione. Quindi quale minaccia gravissima imponeva all’America di continuare ad avere un ruolo nel mondo tanto eccezionale e fuori misura? Gli Stati Uniti non potevano tornare a essere una nazione normale con una definizione più normale dei propri interessi nazionali?

Nel settembre del 1990, in un articolo intitolato “Un paese normale in tempi normali”, Jeane Kirkpatrick argomentò proprio questa tesi. Con la caduta dell’Urss, non c’era più “la necessità pressante di eroismo e sacrificio”. La Guerra fredda aveva dato alla politica estera “un’importanza innaturale” nella vita americana. “L’élite della politica estera” si era ormai abituata a pensare che gli Stati Uniti avessero “obiettivi espansivi, costosi e globali” che “trascendevano gli interessi apparenti dell’America”. Era arrivato il momento per Washington di “concentrarsi di nuovo sui propri interessi nazionali”, che secondo la Kirkpatrick erano gli interessi “convenzionalmente concepiti” – “proteggere il territorio, la ricchezza e l’accesso ai beni necessari; difendere i propri connazionali”. Questa era “la condizione normale per le nazioni”. Kirkpatrick esprimeva quello che molti sentivano dopo la caduta del Muro nel 1989, non soltanto i seguaci di Patrick Buchanan, che trovò molto da elogiare in quel saggio. Francis Fukuyama disse che con il comunismo in dissoluzione e la democrazia in trionfo, non c’erano altre grandi sfide geopolitiche e ideologiche all’orizzonte. La minaccia principale per il futuro – come scrisse nel suo famoso libro “La fine della storia” – sarebbe stata la noia, la tediosità vuota di una vita all’ombra di un liberalismo occidentale insipido e poco eccitante. Altri sottolineavano l’allarme di Paul Kennedy sull’“overstretch” imperiale e si preoccupavano che gli impegni militari dell’America così estesi e non più giustificati dal nemico sovietico avrebbero finito per portare uno svantaggio al paese in un mondo in cui la geoeconomia vinceva sulla geopolitica. I realisti chiesero un forte ridimensionamento degli sforzi militari oltreoceano, il ritiro delle truppe dall’Europa e dall’Asia, e persino il ritorno a quello che chiamavano “l’equilibrio offshore” degli anni Venti e Trenta.

Eppure, e va sottolineato, per i primi due decenni dell’èra post Guerra fredda gli Stati Uniti hanno continuato a sostenere l’imponente strategia da pre-Guerra fredda. Gli eventi che definirono l’approccio degli anni seguenti erano al confronto minori. Nell’agosto del 1990, l’esercito iracheno di Saddam Hussein invase il Kuwait, e in pochi giorni lo conquistò e fece l’annessione. Per quanto fosse un’azione brutale, in confronto agli eventi sismici del sanguinoso Ventesimo secolo, sembrava una “small beer”, una cosa da niente. Il confine tra le due nazioni, come molte frontiere nel mondo arabo, era stato disegnato arbitrariamente dall’impero britannico. Il Kuwait era sotto la sovranità dell’Iraq durante l’impero ottomano, e i leader di Baghdad avevano considerato per decenni il Kuwait una loro provincia.

Saddam giustificò l’invasione come un sostegno alla ribellione popolare – creata ad arte – contro la famiglia reale del Kuwait. Dentro e fuori l’Amministrazione Bush, i cosiddetti realisti sostenevano che la linea di reazione degli Stati Uniti non passava dal Kuwait, ma dall’Arabia Saudita. Il petrolio del Kuwait non era poi così importante, disse Colin Powell, e il rischio di un “confronto ben più grave” con Saddam e il suo esercito era molto alto, così l’opzione “più prudente” era quella di difendere i sauditi. “Non possiamo costruire un caso che porti a far perdere vite americane in nome del Kuwait”, diceva Powell, “ma con i sauditi è del tutto differente”. Dick Cheney era preoccupato del fatto che cacciare Saddam dal Kuwait costasse “one hell of a lot of money”, un sacco di soldi, che gli americani avevano “una bassa tolleranza per le guerre” e che, dopotutto, “quel petrolio va soprattutto al Giappone”. James Baker la pensava più o meno allo stesso modo, così come la maggior parte dei democratici al Congresso, e la maggioranza degli americani. Un sondaggio fatto nel 1990 rivelò che il 51 per cento degli americani non era d’accordo con il tentare di far uscire gli iracheni con la forza dal Kuwait e soltanto il 37 per cento pensava che l’intervento fosse giusto. La maggior parte era a favore di sanzioni economiche per punire Saddam.

Altri consiglieri di Bush invece, guidati da Brent Scowcroft, vedevano le cose in modo differente. L’invasione di Saddam, pensavano, era “il primo test per il sistema post Guerra fredda”. Per metà secolo gli Stati Uniti avevano avuto un ruolo guida nella deterrenza contro gli eventuali aggressori. Tuttavia cacciare gli iracheni dal Kuwait sarebbe stato “costoso e rischioso”. Scowcroft temeva che un fallimento avrebbe costituito “un precedente terribile, che avrebbe soltanto accelerato tendenze centrifughe violente, in questa èra nascente del dopo Guerra fredda”. L’accettazione di un’aggressione in una regione avrebbe fomentato aggressioni da qualche altra parte. A Bush quella situazione ricordava molto gli anni Trenta. Questa volta, come ricorda nel suo memoir, “non volevo alcun appeasement”. Parlando agli americani alla vigilia della guerra, Bush descrisse gli obiettivi della nazione non in termini di interessi nazionali, ma in termini di un “nuovo ordine mondiale”, nel quale “lo stato di diritto, non la legge della giungla, governa le azioni delle nazioni”. Come Roosevelt nel 1939, Bush affermò che “un mondo nel quale la brutalità e l’illegalità possono continuare indisturbate non è il tipo di mondo in cui vogliamo vivere”.

Così l’originale strategia di Roosevelt – la difesa dell’ordine mondiale liberale contro il collasso, con la risposta non soltanto a ogni singola, specifica minaccia ma a ogni sfida politica, economica o strategica potesse presentarsi – sembra riemergere dopo la Guerra fredda. Dopo il 1990, gli Stati Uniti, nonostante alcune pressioni per un maggiore protezionismo nel dibattito interno, in generale cercarono di espandere il libero mercato e lavorarono in collaborazione con altri governi, anche nei momenti di crisi, per prevenire un crollo del sistema economico globale. Gli Stati Uniti cercarono anche di allargare il loro sistema di alleanze, specialmente nell’Europa centrale e orientale.

Nel decennio dopo la caduta del Muro, gli Stati Uniti fecero anche un considerevole numero di operazioni militari, sette per essere precisi, più o meno una ogni 17 mesi: a Panama (1989), in Iraq (1991), in Somalia (1992), ad Haiti (1994), in Bosnia (1995), di nuovo in Iraq (1998), in Kosovo (1999). Nessuna operazione era una risposta a una minaccia percepita degli interessi nazionali. Erano tutte fatte per difendere ed estendere l’ordine mondiale liberale – cacciando dittatori, ribaltando golpe, cercando di riportare la democrazia come a Panama e Haiti; prevenendo uccisioni di massa e carestie in Somalia, Bosnia e Kosovo; contenendo o ribaltando aggressioni nel Golfo Persico nel 1991; cercando di prevenire la proliferazione nucleare di altre armi di distruzione di massa in Iraq nel 1998.

Quando Bush inviò 30 mila soldati per rimuovere il dittatore corrotto Manuel Noriega non fu, come scrisse giustamente Gorge Will al tempo, per perseguire interessi nazionali “vagamente costruiti”, ma per soddisfare “i diritti e le responsabilità che s’accompagnano al possesso di un grande potere”. Quando Bush poi andò in Somalia, si trattò dell’intervento più puramente umanitario, e anche puramente disinteressato, della storia americana. Disse: “Comprendo che gli Stati Uniti da soli non possono aggiustare tutto quel che è rotto nel mondo”. Ma il popolo somalo “ha bisogno del nostro aiuto” e “alcune crisi nel mondo non possono essere risolte senza il coinvolgimento dell’America”.

Gli Stati Uniti, in breve, erano “la nazione indispensabile” secondo la definizione di Bill Clinton – indispensabile per preservare l’ordine mondiale liberale. Questo era il pensiero alla base di molte delle iniziative di politica estera di Clinton: l’allargamento della Nato, che includeva l’estensione di garanzie militari senza precedenti a nazioni come la Polonia, la Repubblica ceca, i paesi baltici; i miliardi inviati per salvare l’incerto esperimento democratico di Boris Yeltsin in Russia; il focus sul contenimento di Corea del nord, Iraq e Iran, definiti “rogue states” proprio perché sfidavano i princìpi dell’ordine mondiale liberale. I conflitti in parti remote e turbolente del mondo non erano considerati irrilevanti per gli interessi nazionali, ma furono posizionati all’interno di un contesto più ampio. Dopo il massacro di Srebrenica, nel 1995, gli uomini di Clinton affermarono, secondo David Halberstam, che “l’aggressione serba” era intollerabile – non perché minacciava direttamente gli interessi americani, cosa che ovviamente non faceva, ma perché “squarciava il tessuto stesso dell’occidente”.

Anche lo scontro con l’Iraq, cominciato alla fine degli anni Novanta e culminato con l’invasione del 2003, cominciò come un problema di ordine mondiale, prima di diventare parte della “Guerra al terrore” di George W. Bush. Quando Clinton diede l’ordine per quattro giorni di bombardamenti e attacchi missilistici contro le basi in cui si sospettava che fossero prodotte le armi irachene alla fine del 1998, avvertì che, se Saddam non fosse stato fermato, la comunità delle nazioni si sarebbe accorta “sempre di più della minaccia che l’Iraq rappresenta oggi: uno stato fallito con armi di distruzione di massa, pronto a usarle o a darle ai terroristi. Se non rispondiamo oggi, domani Saddam e tutti quelli che seguiranno i suoi passi si sentiranno più forti”. Nel Ventesimo secolo, gli americani “hanno spesso fatto la distinzione tra caos e comunità, paura e speranza. Ora, nel nuovo secolo, avremo un’opportunità rimarchevole di forgiare un futuro più pacifico rispetto al passato”. Alla fine, la decisione di George W. Bush di rimuovere Saddam Hussein, che osse saggia o folle, era guidata più da preoccupazioni sull’ordine mondiale che sullo stretto interesse nazionale. Di tutti gli interventi dell’èra post Guerra fredda, soltanto l’invasione dell’Afghanistan potrebbe essere considerata legata direttamente alla sicurezza nazionale dell’America.

I LUNGHI INTERVENTI IN IRAQ E AFGHANISTAN hanno certamente giocato un ruolo nello svilire il sostegno americano, non soltanto per le guerre ma anche per la strategia che aveva portato a quelle guerre. Tuttavia, quel sostegno è stato fragile fin dall’inizio. I sondaggi durante tutti gli anni Novanta mostravano che gli americani erano incerti sulle operazioni oltreoceano, anche se l’opinione pubblica generalmente sosteneva i loro presidenti quando usavano la forza. I democratici votarono contro la guerra nel Golfo Persico di Bush padre; i repubblicani s’opposero agli interventi dell’Amministrazione Clinton ad Haiti e nei Balcani considerandoli superflui “lavori sociali internazionali” e “nation building” del tutto separati dagli interessi nazionali dell’America. I realisti nelle università e nei centri studi si distanziarono dalle diverse Amministrazioni, lanciando allarmi sull’“imperialismo”. Forse come quei protagonisti dei cartoni animati che corrono verso i burroni e restano appesi con le gambe penzolanti prima di cadere, il sostegno alle politiche degli anni Novanta fu una specie di inerzia in avanti, alimentata dall’energia dell’ultima parte della Guerra fredda, che la forza di gravità avrebbe infine riportato sulla terra.

IL PENSIERO COMUNE PREVALENTE oggi è che gli americani sono stanchi della guerra. Ma sarebbe più accurato dire che sono stanchi del mondo. Durante la Guerra fredda, dopotutto, gli americani avevano molti più motivi per essere stanchi della guerra – la Corea e il Vietnam sono state 14 volte più costose in termini di vite americane rispetto all’Afghanistan e all’Iraq – ma non rifiutarono mai completamente la strategia del contenimento anticomunista che li aveva portati in guerra. L’umore di oggi sembra più simile a quello degli anni Venti. Più del 50 per cento degli americani oggi crede che gli Stati Uniti “debbano occuparsi dei propri affari a livello internazionale e lasciare che le altre nazioni vadano avanti come meglio riescono da sole” – è il numero più alto raggiunto da quando Pew ha iniziato a fare questa domanda, cinquanta anni fa.

Al cuore di questo atteggiamento c’è senza dubbio il desiderio di evitare altre guerre. Ma come gli anni Venti e Trenta hanno dimostrato, la determinazione a rimanere fuori dalla guerra può influenzare le politiche estere ed economiche a livello più ampio. Negli anni Trenta, il desiderio di evitare la guerra portò il Congresso ad approvare i Neutrality Acts, per impedire che soltanto il commercio degli americani con parti belligeranti di una guerra all’estero potesse trascinare il paese da una parte o dall’altra di qualche conflitto. Un’azione del genere sarebbe inconcepibile oggi, ma il ragionamento che sta dietro è palese. I sondaggi mostrano non soltanto che gli americani sono contrari all’uso della forza ma che vogliono anche stare lontano dalla guerra. Più del 50 per cento degli americani concorda nel dire che è “più importante” che gli Stati Uniti “non si facciano coinvolgere nella situazione in Ucraina” piuttosto che “prendere una posizione decisa” contro la Russia, cosa che soltanto il 29 per cento considera invece più importante. Molti di quelli che non vogliono essere “troppo coinvolti” possono temere che ogni coinvolgimento porti a un possibile confronto militare, e non hanno del tutto torto. Come negli anni Venti e Trenta, gli americani sanno capire quando può andare a finire male.

IV.

Spesso gli storici fanno riferimento alla “maturazione” della politica estera dell’America nel Diciannovesimo secolo. Ma se le nazioni possono imparare, possono anche dimenticare quanto imparato. In questi giorni è difficile osservare il comportamento della politica estera americana e la discussione che le ruota intorno senza percepire una certa dimenticanza delle vecchie lezioni su cui poggiava la grande strategia. Forse era inevitabile. La Seconda guerra mondiale è distante dai “millennial” di oggi quanto la Guerra civile lo era per la generazione degli anni Trenta. Una generazione che non ricorda la Guerra fredda, ma che è cresciuta conoscendo solo l’Iraq e l’Afghanistan, sta iniziando a vedere in maniera differente il ruolo dell’America nel mondo. Si aggiunga il fatto che la generazione precedente è stanca di interpretare lo stesso vecchio ruolo, e non sorprende che l’entusiasmo si stia sgonfiando. Gli americani oggi non sono isolazionisti, sono più come erano negli anni Venti. Amano l’ordine mondiale liberale nella misura in cui pensano che questo abbia conseguenze immediate sulle loro vite. Ma non sono più preparati a sacrificare molto per proteggerlo.

E’ comprensibile. Gli americani sono stati degli Atlanti che portavano il mondo sulle loro spalle. Possono essere perdonati per la tentazione di metterlo giù. Nelle migliori circostanze, ricoprire il ruolo del difensore dell’ordine mondiale liberale è sempre stato un compito monumentale. All’alba dell’èra americana, Truman la definì “la responsabilità più terribile che qualsiasi nazione abbia mai affrontato”. George Kennan era convinto che gli americani “non fossero adatti, né a livello istituzionale né per temperamento, per essere un potere imperiale in grande stile”. Kennan li sottostimava, e gli americani hanno mantenuto i loro impegni verso il mondo per decenni, meglio di molte altre nazioni.

Nonostante questo il peso è stato enorme, e non soltanto per i costi ovvi in vite e denari. Gli americani hanno speso cifre gigantesche nei budget per la Difesa, più di tutte le altre grandi potenze messe insieme. Gli alleati dell’America non possono portare un po’ di più di questo peso? La domanda è stata posta fin dall’inizio della Guerra fredda, ma la risposta è sempre stata: probabilmente no. Le stesse ragioni che hanno reso gli Stati Uniti capaci di difendere l’ordine mondiale – ricchezza e potere enormi e la sicurezza data loro dalla geografia – aiuta a capire perché gli alleati degli americani sono sempre stati meno capaci e meno volenterosi. Sono mancati loro il potere e la sicurezza di vedere e agire oltre i loro limitati interessi. E dove hanno fallito nel passato falliranno ancora. Anche gli europei del Ventunesimo secolo, con tutte le loro meraviglie di unioni europee, sembrano incapaci di unirsi contro il predatore che sta in mezzo a loro, e sono pronti, come nel passato, a lasciare che il più debole sia divorato se questo è necessario per salvare la loro pelle (e l’economia). Ci sono anche alcuni costi morali. Come molti popoli, gli americani amano credere che il loro comportamento nel mondo sia giusto, che sono dalla parte della ragione. Se possibile, vogliono avere una sanzione legale e istituzionale per le loro azioni, o quanto meno l’approvazione generale delle nazioni affini. Nelle due occasioni negli scorsi cento anni in cui gli Stati Uniti hanno preso in considerazione l’idea di assumere un ruolo centrale negli affari mondiali, nel 1918 e nel 1945, i leader americani hanno insistito per creare contestualmente un’organizzazione globale che potesse, almeno in teoria, legittimare l’operato americano.

Il problema è che il mondo manca di ogni istituzione sovranazionale, legale o istituzionale, e ancor meno di un’autorità democratica, alla quale le nazioni si sottomettano. I dilemmi su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato sono risolti non sulla base di una giustizia imparziale ma di solito sulla base della distribuzione dei poteri nel sistema. Gli americani hanno sempre avuto bisogno di usare il loro potere per sostenere la loro idea di giustizia senza nessun’altra rassicurazione oltre alla consapevolezza di essere nel giusto. E’ un peso morale enorme per un paese democratico. Nelle loro vite di tutti i giorni, gli americani sono abituati a vivere questo peso suddiviso uniformemente su tutta la società. Il popolo fa le leggi, la polizia le fa rispettare, i magistrati e le giurie comminano le pene e i funzionari carcerari infliggono le punizioni. Ma nella sfera internazionale, gli americani hanno dovuto agire da giudice, giuria, polizia e, nei casi di azione militare, anche da boia. Cosa dà agli Stati Uniti il diritto di agire in vece dell’ordine mondiale liberale? In verità niente, oltre alla convinzione che l’ordine mondiale liberale è il più giusto.

Questo dilemma morale era più facile da ignorare durante la Guerra fredda, quando ogni azione intrapresa, anche negli angoli più oscuri del pianeta, era giustificata dalla difesa di interessi nazionali vitali. Ma oggi le azioni prese in difesa dell’ordine mondiale sono cariche di complessità morale. Gli americani e gli europei dicono che la sovranità dell’Ucraina dovrebbe rimanere inviolata e che il popolo dell’Ucraina dovrebbe essere reso libero di seguire le proprie aspirazioni a essere parte dell’Europa. Vladimir Putin giustifica la sua invasione della Crimea sulla base di antichi legami storici e come risposta all’intromissione americana ed europea nella sfera storica di influenza della Russia. C’è qualcuno che può giudicare tra queste due invocazioni di giustizia contrastanti? Chi può decidere quale parte ha ragione e quale ha torto? Non è il caso di invocare una qualche moralità superiore del Ventunesimo secolo in contrasto con l’inferiore moralità del Diciannovesimo. In questo secolo non c’è più moralità o più giustizia nel sistema internazionale di quanto ce ne fossero in quelli precedenti. Né le grandi potenze arrivano allo scontro con la coscienza pulita, in questo o negli altri secoli. Tutte pensano al loro interesse, tutte sono moralmente compromesse. Infatti, più potere ha una nazione, più tende ad agire in modi che non possono essere definiti secondo la concezione di moralità cristiana o illuminista.

Chi potrebbe dire che perfino la difesa dell’ordine liberale è necessariamente giusta? L’ordine liberale non è mai stato messo al voto. Non è stato benedetto da Dio. Non è il punto d’arrivo del progresso umano, nonostante ciò che ci dice la nostra educazione illuminista. E’ un ordine mondiale temporaneo ed effimero che soddisfa le esigenze, gli interessi e soprattutto gli ideali di un grande e potente insieme di popoli, ma che non necessariamente soddisfa gli interessi e i desideri di tutti. Per decenni molti popoli stranieri e anche alcuni americani lo hanno visto come una forma di imperialismo occidentale, e molti ancora lo vedono come tale. Il comunismo sarà fallito, ma l’autoritarismo e l’autocrazia sopravvivono. Ed è l’autocrazia, non la democrazia, a essere stata la forma di governo standard nel corso della storia. Negli ultimi decenni le democrazie, guidate dagli Stati Uniti e dall’Europa, hanno avuto il potere di plasmare il mondo. Ma chi può dire che il putinismo in Russia o il tipo particolare di governo autoritario praticato in Cina non sopravviveranno abbastanza per sostituire la democrazia europea, anch’essa, eccezion fatta per la Gran Bretagna, vecchia appena di un secolo?

L’ordine mondiale liberale, come ogni altro ordine, è qualcosa di imposto, e per quanto l’occidente possa desiderare che sia imposto dalla sua virtù superiore, è solitamente imposto da una manifestazione di potere superiore. Putin cerca di imporre la sua visione dell’ordine mondiale, almeno nell’area di influenza russa, esattamente come cercano di fare l’Europa e gli Stati Uniti. Il suo successo o il suo fallimento probabilmente non saranno determinati solo da chi ha ragione e chi ha torto. Saranno determinati dall’esercizio del potere.

Questa è una riflessione inquietante per una nazione che si è stancata di esercitare il potere. Hans Morgenthau una volta ha notato che gli americani sono attratti dall’“illusione che una nazione possa scappare… dalla politica di potere”, e che a un certo punto “gli ultimi veli cadranno e il gioco della politica di potere smetterà di essere giocato”. Molte fughe dalla realtà sono state proposte negli ultimi vent’anni. Nel 1989 Fukuyama disse agli americani che con la fine della storia non sarebbero più “rimasti veri avversari ideologici della democrazia liberale”. Il progresso liberale era inevitabile, e pertanto non c’era bisogno di fare niente per promuoverlo o difenderlo. Questi pensieri sono risuonati in tutti gli anni Novanta. L’èra della geopolitica aveva lasciato il posto all’èra della geoeconomia. Quello di cui l’America aveva bisogno nella nuova èra era meno “hard power” e più “soft power”.

Questo era il senso comune almeno dalla fine della Guerra fredda fino al 2008 e l’inizio della crisi finanziaria. Poi il paradigma è cambiato. All’improvviso, al posto della fine della storia si è iniziato a parlare di fine dell’America e di fine dell’occidente. Il trionfalismo si è trasformato in declinismo. Dall’utopia del dopo Guerra fredda si è passati al mondo post americano. Ma anche questa si è rivelata essere un’evasione dalla realtà: sia che il mondo liberale stesse trionfando sia che l’America e l’occidente fossero in declino, la soluzione rimaneva la stessa: non c’è niente da fare. Dovunque prima era stato inutile per l’America, o perfino sbagliato, usare il suo potere per plasmare il mondo, ora, all’improvviso, era impossibile, perché gli Stati Uniti non avevano più potere a sufficienza.

Oggi più del cinquanta per cento degli americani ritiene che gli Stati Uniti giochino “un ruolo meno importante e potente come leader mondiale di quanto non facessero dieci anni fa”. Si potrebbe pensare che per molti americani questo declino non sia accompagnato da un senso di panico bensì di sollievo. Meno potere significa meno responsabilità. Un senso di inevitabilità, oggi come negli anni Venti e Trenta, è sia un invito sia una giustificazione per un ritorno alla normalità.

Il senso di inevitabilità ha colto anche i legislatori. Gli alti funzionari della Casa Bianca, soprattutto i più giovani, guardano a problemi come la guerra civile in Siria e pensano che ci sia poco o niente che gli Stati Uniti possano fare. Questa è la lezione della loro generazione, la lezione dell’Iraq e dell’Afghanistan: che l’America non ha né il potere né la sensibilità né la capacità per risolvere i problemi nel mondo. Anche questo è un tentativo di fuga dalla realtà, in quanto c’è un mito in questo appello all’inevitabilità, cioè che esercitare il potere un tempo fosse più facile di quanto non sia oggi.

Possiamo indossare degli occhiali dalle lenti rosa e ripensare alla Guerra fredda e immaginare che gli Stati Uniti sapessero perfettamente come convincere gli altri a fare quello che volevano, sapessero quello che andava fatto e avessero un potere così eccezionale che il mondo si inginocchiava al loro volere o soccombeva al loro incanto. Ma la politica americana durante la Guerra fredda, nonostante il suo successo finale, era piena di errori, insensatezze, mezzi disastri, qualche disastro vero. Fin dall’inizio gli alleati sono stati riottosi, risentiti e difficili da gestire. La politica interna rendeva le grandi strategie difficili e a volte impossibili da mettere in pratica. L’economia mondiale, con l’economia americana, passava di crisi in crisi. Il potere militare dell’America era quanto meno uno strumento malsicuro. In Vietnam, perché inevitabile o a causa delle cattive strategie di Washington, fallì miseramente. In Corea, subì quasi la catastrofe completa. I presidenti di maggior successo del loro tempo, da Truman a Reagan, non sono sembrati sempre di successo agli occhi dei loro contemporanei e hanno subìto sconfitte significative nelle loro politiche internazionali. Gli architetti delle strategie internazionali di oggi davvero credono che Acheson e i suoi colleghi, o gli strateghi nelle Amministrazioni Johnson, Nixon o Carter se la passassero meglio di loro?

La politica estera di ogni nazione è destinata a subire più fallimenti che successi. Il tentativo di influenzare il comportamento delle persone anche nelle questioni domestiche è già abbastanza difficile. Influenzare gli altri popoli e le altre nazioni senza limitarsi ad annichilirli è la più difficile delle azioni umane. E’ anche nella natura intima della politica estera, così come nelle questioni umane in genere, che tutte le soluzioni ai problemi portino solo più problemi. Questo è sicuramente vero per tutte le guerre. Nessuna guerra finisce in maniera perfetta, anche quelle con gli obiettivi più chiari e limpidi. La Guerra civile non pose fine alla piaga terribile della schiavitù, pur costando mezzo milione di vite. La Seconda guerra mondiale finì con il controllo dell’Unione sovietica su metà dell’Europa e aprì la strada ad altri quarant’anni di scontro tra superpotenze.

Quando una nazione usa il suo potere per plasmare l’ordine mondiale, più che per autodifesa o conquista, l’ambiguità delle soluzioni è ancora più forte. Le azioni militari per preservare l’ordine mondiale sono quasi per definizione limitate sia negli scopi sia negli obiettivi. Il mantenimento dell’ordine mondiale rende necessario operare nell’area grigia tra la vittoria e la sconfitta. La misura del successo spesso non è quanto è meraviglioso il risultato finale, ma se l’insoddisfacente risultato finale è migliore o peggiore di quello che sarebbe accaduto se non si fosse agito. Insistere su risultati che puntino sempre al massimo risultato con il minor costo possibile è un’altra forma di fuga dalla realtà.

OGGI, TUTTAVIA, GLI AMERICANI SEMBRANO SOPRAFFATTI dalla difficoltà e dalla complessità di tutto questo. Anelano a ritornare a quella che Niebuhr ha chiamato “l’innocenza dell’irresponsabilità”, o quanto meno a una normalità in cui gli Stati Uniti possano limitare la portata dei loro impegni. In questo senso l’America è tornata allo stato d’animo degli anni Venti. C’è una differenza però. Negli anni Venti, non era l’ordine mondiale americano che aveva bisogno di essere puntellato. Gli americani pensavano, in modo errato come poi si è capito, che fosse compito della Gran Bretagna e dell’Europa difendere l’ordine mondiale che loro stesse avevano creato. Oggi è l’ordine mondiale dell’America che ha bisogno di sostegno. Gli americani decideranno che questa volta vale la pena sostenerlo, quando solo loro hanno la capacità di farlo?

Non si pensa mai all’acqua fino a che il pozzo non si prosciuga, o almeno così dice il proverbio. Ci si potrebbe chiedere se gli americani, compresi i loro rappresentanti e il loro presidente, comprendano la posta in gioco. Quando il presidente Obama salì in carica per la prima volta cinque anni fa, Peter Baker del New York Times scrisse che il suo intento era di occuparsi “del mondo così com’è più che del mondo come dovrebbe essere”. E’ un ritornello realista che è stato ripetuto ancora e ancora dagli alti funzionari dell’Amministrazione Obama per spiegare perché il presidente ha deciso di non perseguire alcuni “ideali” desiderabili ma non raggiungibili in questa o quella questione. Quello che sempre meno persone sembrano capire, però, è che gli ultimi settanta anni hanno offerto all’America e a molti altri una notevole tregua dal “mondo così com’è”.

Lunghi periodi di pace e di prosperità possono portare la gente a dimenticare com’è veramente il mondo “così com’è”, e a concludere che la razza umana sia semplicemente arrivata a un nuovo stadio di sviluppo. Questo era il pensiero comune in Europa nel primo decennio del Ventesimo secolo. In un periodo in cui non c’erano state guerre tra grandi potenze per quarant’anni, né una grande guerra europea in un secolo, l’aria era piena di discussioni su un nuovo millennio in cui la guerra tra nazioni civilizzate era ormai diventata impossibile. Tre quarti di secolo, due guerre mondiali e una Guerra fredda dopo, queste idee stanno tornando. Alcuni studi citati da Fareed Zakaria pretendono di mostrare che è avvenuta una “trasformazione nelle relazioni internazionali”. “Le modificazioni dei confini con la forza” si sono ridotte drammaticamente “dal 1946”. Le nazioni dell’Europa occidentale, dopo aver provocato due nuove guerre all’anno per 600 anni, non ne hanno iniziata nemmeno una “dal 1945”. Steven Pinker nota che il numero delle morti causate da guerre, conflitti etnici e colpi di stato militari si è ridotto  – dal 1945 – e conclude che la razza umana è diventata “socialmente adatta” a preferire la pace e la non violenza.

Le date in cui questi cambi dovrebbero essere cominciati sono un buon indizio. E’ una coincidenza che tutti questi trend felici sono iniziati quando l’ordine mondiale americano è stato instaurato dopo la Seconda guerra mondiale, o che siano accelerati negli ultimi due decenni del Ventesimo secolo, quando l’unico vero avversario dell’America è crollato? Immaginate di passeggiare per Central Park e, dopo aver notato quanto è diventato sicuro passare di lì, decidere che l’umanità deve semplicemente essere diventata meno violenta – senza pensare che forse la polizia di New York ha qualcosa a che vedere con il fenomeno.

Infatti, il mondo “così com’è” è un posto pericoloso e spesso brutale. Non ci sono state trasformazioni nel comportamento umano o nelle relazioni internazionali. Nel Ventunesimo secolo, non meno che nel Diciannovesimo o nel Ventesimo, la forza rimane l’ultima ratio. La domanda, oggi come nel passato, non è se le nazioni sono pronte a usare la forza ma se pensano di potersela cavare quando lo fanno.

Se ci sono state meno aggressioni, meno pulizie etniche, meno conquiste territoriali negli ultimi settanta anni, è perché gli Stati Uniti e i loro alleati hanno punito e prevenuto le aggressioni, sono intervenuti, a volte, per evitare le pulizie etniche, e sono entrati in guerra per contrastare le conquiste territoriali. L’esitazione mostrata dalle altre nazioni nell’uso della forza non era segno del progresso umano, del rafforzamento delle istituzioni internazionali o del trionfo della legge. E’ stata una risposta a una distribuzione globale del potere che, fino a poco tempo fa, rendeva l’autocontrollo la via più sicura.

Quando Vladimir Putin non è riuscito a raggiungere i suoi scopi in Ucraina con i mezzi della politica e dell’economia, è ricorso alla forza, perché sapeva di poterlo fare. Continuerà a usare la forza finché riterrà che i benefici saranno maggiori degli svantaggi. E non è l’unico a pensarla in questo modo. Cosa potrebbe fare la Cina se non fosse circondata da un anello di nazioni potenti sostenute dagli Stati Uniti? E inoltre, cosa potrebbe fare il Giappone se fosse molto più potente di adesso e molto meno dipendente dagli Stati Uniti per la sua sicurezza? Non abbiamo avuto bisogno di scoprire le risposte a queste domande, non ancora, perché il predominio dell’America, il sistema di alleanze dell’America, e gli aspetti economici, politici e istituzionali dell’attuale ordine mondiale, tutti dipendenti dall’esercizio del potere, hanno tenuto chiuso il coperchio su questo vaso di Pandora.

E non abbiamo ancora scoperto quali conseguenze potrebbe avere il mondo “così com’è” sulla rimarchevole diffusione della democrazia. I critici della “esportazione della democrazia” sostengono che gli Stati Uniti spesso hanno provato a piantare la democrazia su suolo improduttivo. Forse hanno ragione. Il fiorire della democrazia nel mondo negli ultimi decenni potrebbe dimostrarsi artificiale e pertanto transitorio. Come ha osservato una volta Michael Ignatieff, potrebbe essere che la “civiltà liberale” in sé “sia intimamente contraria alla direzione dello sviluppo umano e sia realizzata e mantenuta soltanto grazie a una lotta incessante contro la natura umana”. Forse questo fragile giardino democratico richiede il mantenimento di un ordine mondiale liberale, e richiede di essere costantemente concimato, innaffiato, seminato e recintato contro la giungla sempre incombente. Senza tutto questo lavoro, le erbacce e la giungla potrebbero presto o tardi tornare e riprendersi la terra.

Ci si potrebbe chiedere se l’ordine economico attuale rifletta il mondo “così com’è”. Un mondo in cui le autocrazie fanno tentativi sempre più ambiziosi per controllare il flusso delle informazioni, e in cui le cleptocrazie autocratiche usano la ricchezza e le risorse per perseguire i loro interessi privati, potrebbe dimostrarsi meno ospitale verso la libera circolazione dei commerci di cui il mondo ha goduto negli ultimi decenni.

Infatti, dai tempi in cui Roosevelt e Truman lo lanciarono, l’intero progetto di promuovere e difendere un ordine del mondo liberale è stato uno sforzo organizzato per non accettare il mondo “così com’è”. Il progetto americano era rivolto a plasmare un mondo diverso da come era sempre stato, avvantaggiandosi della capacità unica dell’America di fare quello che nessun’altra nazione era mai stata capace di fare. Oggi, tuttavia, poiché molti americani non ricordano com’è davvero il mondo “così com’è”, non lo possono immaginare. Si lamentano delle difficoltà e dei fallimenti della grandiosa strategia ma danno per garantiti tutti i suoi benefici.

Forse non comprendono nemmeno quanto velocemente tutto questo potrebbe sfaldarsi. Il sistema internazionale è una rete elaborata di relazioni di potere, in cui ogni nazione, dalla più grande alla più piccola, è perennemente soggetta a spostamenti e perturbazioni. Fin dal 1945, e soprattutto fin dal 1989, questa rete è stata ideata per dipendere soprattutto dagli Stati Uniti. Gli alleati osservano il comportamento americano e soppesano l’affidabilità dell’America. Le nazioni contenute o minacciate dal potere americano cercano segnali dell’aumento o della diminuzione del suo potere e della sua volontà. Quando gli Stati Uniti sembrano tirarsi indietro, gli alleati di conseguenza diventano ansiosi, e gli altri iniziano a cercare un modo per approfittare della situazione.

Negli ultimi anni, il mondo ha colto inconfondibili segnali che gli americani forse non vogliono più portare su di sé il peso della responsabilità globale. Gli altri osservano i sondaggi, leggono i discorsi del presidente che invoca un “nation building domestico”, guardano la diminuzione del budget della Difesa e delle capacità militari, e notano l’eccezionale reticenza, da parte dei partiti politici americani, ad usare la forza. Il mondo ritiene che, se non fosse stato per la stanchezza dell’America nei confronti della guerra, gli Stati Uniti probabilmente avrebbero usato la forza in Siria – esattamente come fecero in Kosovo, in Bosnia e a Panama. Lo stesso presidente Obama lo ha riconosciuto di recente  quando ha detto “non è che non andrebbe fatto. E’ che dopo un decennio di guerre, sapete com’è, anche gli Stati Uniti hanno dei limiti”. Queste dichiarazioni fanno vibrare tutta la rete. Nell’est asiatico, le nazioni che vivono vicine alla sempre più potente Cina vogliono sapere se gli americani faranno lo stesso ragionamento quando sarà la volta di difendere loro; nel medio oriente, le nazioni preoccupate dall’Iran si chiedono se saranno lasciate ad affrontarlo da sole; nell’Europa dell’est e nei paesi del Baltico, le garanzie di sicurezza americane sono prive di significato a meno che gli americani non siano in grado di fare loro onore, e ne abbiano la volontà.

Ce l’hanno? Nessuno di recente ha fatto un sondaggio per capire se gli Stati Uniti dovrebbero andare in difesa degli alleati con cui hanno stabilito un trattato in caso di una guerra, diciamo, tra la Cina e il Giappone, o se dovrebbero andare in difesa dell’Estonia in un conflitto con la Russia sul modello ucraino. La risposta potrebbe essere interessante.

Nel frattempo, i segnali che l’ordine globale si sta disfacendo sono intorno a noi. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e l’annessione della Crimea sono state la prima volta dalla Seconda guerra mondiale in cui una nazione europea è stata coinvolta in una conquista territoriale. Se l’Iran riesce a ottenere l’arma nucleare potrebbe portare le altre potenze nella regione a fare lo stesso, smontando il regime di non proliferazione che, insieme con il potere americano, è riuscito a mantenere il numero delle potenze dotate di armi nucleari ridotto nell’ultimo mezzo secolo. L’Iran, l’Arabia Saudita e la Russia sono coinvolte in una guerra per procura in Siria che, oltre a 150 mila morti e milioni di rifugiati, ha ulteriormente destabilizzato una regione che era già in tumulto. Nell’Asia dell’est il nervosismo sull’ascesa della Cina, unito all’incertezza sull’affidabilità dell’America, sta aumentando le tensioni. Negli ultimi anni il numero delle democrazie nel mondo si è ridotto costantemente, mentre il numero delle autocrazie cresce. Se questi trend continuano, nel prossimo futuro potremmo vedere un aumento dei conflitti, delle guerre per la conquista di territori, sempre più violenza etnica e settaria, e il declino della democrazia nel mondo.

Come risponderà l’America? Se cercheranno di interpretare ancora una volta l’“interesse nazionale” in maniera ristretta, allora gli americani potrebbero trovare tutto questo tollerabile, o quanto meno preferibile a fare qualcosa per fermarlo. Gli Stati Uniti potrebbero sopravvivere se la Siria rimane sotto il controllo di Assad o, più probabilmente, si disintegra in un caos di territori, alcuni dei quali saranno controllati dai terroristi jihadisti? Potrebbe sopravvivere se l’Iran ottiene la bomba atomica, e se di conseguenza l’Arabia Saudita, la Turchia e l’Egitto si armano anche loro? O se la Corea del nord dichiara guerra al sud? Potrebbe sopravvivere in un mondo dove la Cina domina gran parte dell’oriente asiatico, o dove la Cina e il Giappone riprendono il loro antico conflitto? Potrebbe sopravvivere in un mondo dove la Russia domina l’Europa dell’est, non solo l’Ucraina ma  anche gli stati baltici e forse perfino la Polonia? Ovvio che potrebbe. Dal punto di vista della nuda “necessità” e di un interesse nazionale miope, gli Stati Uniti potrebbero sopravvivere a tutto questo. Potrebbero fare commerci con una Cina egemone e trovare un modo per convivere con un impero russo restaurato. Quelli che sono preoccupati da questi sviluppi saranno pressati, come lo fu Roosevelt, a spiegare come ciascuno di questi casi marginali potrebbe coinvolgere gli interessi ristretti dell’americano medio. Come nel passato, gli americani saranno tra gli ultimi a soffrire gravemente dal disfacimento dell’ordine mondiale. E quando avranno iniziato a sentirne gli effetti, ormai sarà troppo tardi.

Nel periodo della Seconda guerra mondiale, Robert Osgood, il più attento tra i pensatori realisti dello scorso secolo, individuò un elemento che mancava dall’analisi strategica di quei giorni. Il mero calcolo razionale dell’“interesse nazionale”, sosteneva, si è dimostrato inadeguato. Paradossalmente, erano gli “idealisti”, quelli che erano “più sensibili alla minaccia del fascismo contro la cultura e la civilizzazione occidentale”, “tra i primi a capire la necessità di prendere misure straordinarie per sostenere la posizione in prima linea dell’America in difesa dell’Europa”. L’idealismo, concluse, era “un pungolo indispensabile nella mente dei grandi uomini per comprendere e agire davanti ai veri imperativi della politica di potere”. Questo era anche il messaggio di Roosevelt, quando chiese agli americani di difendere “non solo le loro case, ma i princìpi di fede e umanità sui quali le loro chiese, i loro governi e la loro civiltà erano fondati”.

Forse gli americani possono essere ispirati ancora alla stessa maniera, senza la minaccia di un Hitler o un attacco al loro territorio nazionale. Ma questa volta non hanno venti anni per decidere. Il mondo cambierà molto più velocemente di quanto immaginino. E non c’è nessuna superpotenza democratica ad attendere dietro le quinte per salvare il mondo se questa superpotenza democratica vacilla.

di Robert Kagan

Questo saggio è stato pubblicato

sull’ultimo numero di New Republic

Il Foglio 29 maggio 2014 - ore 09:3

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