Le elezioni incredibili. Ora chiamare gli elettori alle urne è

diventato un trucco da due soldi per legittimare la violenza

militare, dall’Ucraina alla Siria all’Egitto

Le dita alzate a formare una “V”, nere e viola, i sorrisi lì dietro, orgogliosi: abbiamo votato, siamo vivi. Non c’è niente di più potente di un uomo che sta in fila davanti ai seggi, deciso ad arrivare fino all’urna, anche quando è stato minacciato di morte, anche quando gli è stato ucciso il fratello, anche quando la moglie lo ha implorato: ti prego, no, è pericoloso, non andare. Ci sono state elezioni, in questi anni Duemila così guerreggiati, che hanno ridato alla democrazia il suo senso profondo e liberatorio: in Afghanistan, in Iraq, per esempio. Si poteva essere in disaccordo con le ragioni dei conflitti, ci si poteva arrotolare dentro a bandiere arcobaleno, ma non si poteva rimanere indifferenti di fronte a quella gente che aveva affrontato sul dorso dei muli le vendette dei talebani per dare il proprio voto, e contribuire alla nascita di un nuovo stato. Le elezioni non sono la democrazia, ci vogliono poi progetti di pacificazione, transizioni, istituzioni, lealtà: le rivoluzioni non finiscono nelle urne. Da lì semmai nascono e ripartono, soprattutto nei paesi che sono sempre in guerra. Ma oggi in molte nazioni questo ideale è diventato un mantello con cui ricoprire status quo antidemocratici: facciamo le elezioni, che cosa volete di più? Le alternative non ci sono, gli sfidanti del potere assoluto non si sa nemmeno che nome hanno, figurarsi la faccia, sono comparse di una farsa che ha come titolo “elezione” e che non riguarda nemmeno tutto il territorio di un paese, alcuni votano e altri no. Degli altri aspetti della democrazia, la trasparenza, la stampa libera, la protezione delle minoranze, non si parla neanche. Conta solo mostrare le urne. E magari si svolge tutto nella violenza preventiva, nel broglio permanente, nulla a che vedere con la democrazia, ma che importa, facciamo anche le vostre tanto amate elezioni, sappiamo che ci tenete, vi assecondiamo, che cosa volete ora di più?

Il cioccolataio. Domani si vota in Ucraina, a tre mesi dalla cacciata dell’ex presidente Viktor Yanukovich, che prima di andare a rifugiarsi dai vicini russi aveva massacrato gli ucraini che manifestavano a piazza Indipendenza. In due delle regioni dell’est Ucraina, Donetsk e Lugansk, che rappresentano circa il 15 per cento della popolazione, gli elettori con tutta probabilità non arriveranno alle urne. I separatisti armati hanno chiuso le commissioni elettorali, hanno occupato i seggi preposti per il voto, hanno rubato le schede elettorali. E giovedì a Donetsk c’è stato l’attacco più sanguinoso dall’inizio del blitz di Kiev contro le forze separatiste: è stato attaccato un checkpoint controllato dagli uomini di Kiev, 14 soldati morti, una dinamica tanto inusuale che non sono stati considerati colpevoli i separatisti, ma direttamente i russi, e il premier ucraino, Arseny Yatseniuk, ha chiesto al Consiglio di sicurezza dell’Onu di riunirsi con urgenza. E domani si vota, appunto, con il quarantottenne “re del cioccolato” Petro Poroshenko dato per favorito nei sondaggi: è un businessman famosissimo, definito il “camaleonte” perché ha fondato assieme a Yanukovich il Partito delle regioni ma ha anche partecipato alla rivoluzione arancione che portò al potere il partito pro Europa. E’ guardato con sospetto, ma è meglio dell’altra candidata, Yulia Tymoshenko, il volto più noto d’Ucraina, nonché dama controversa per il suo rapporto di business con la Russia finito talmente male che la Tymoshenko è andata in galera. Nell’indecisione molti pensano che Poroshenko sia almeno in grado di negoziare accordi vantaggiosi: perché metà del paese è in guerra (o fuori controllo), ma fame ce l’hanno un po’ tutti.

Tutto è cominciato con la Crimea, un precedente di illegalità passato sotto i nostri occhi ormai adusi a tutto senza quasi sfiorarci (tutti dicevano: la Crimea è andata, in fondo è russa). Abbiamo votato, e la Crimea ha scelto la Russia: che cosa volete ora? Niente, solo risolvere l’enigma della medaglia. Uno storico della regione di Lugansk, Volodimir Prosin, ha mostrato foto e documenti su una medaglia che è stata consegnata da Mosca ad alcuni ex ucraini: da un lato c’è la penisola della Crimea. Dall’altra c’è scritto “Per il ritorno della Crimea 20.02.14 -18.03.14”. La liberazione della Crimea è iniziata il 20 febbraio? Il ministero della Difesa russa ha tolto l’immagine dal suo sito il 25 marzo, ma da allora tutti si chiedono: il 20 febbraio è il giorno in cui iniziò il massacro dei manifestanti pro Europa a Kiev, almeno 100 morti. Quel giorno Viktor Yanukovich era ancora presidente dell’Ucraina, e della Crimea. Quale operazione degna di medaglia è iniziata quel giorno? Il presidente russo Vladimir Putin ha sempre detto di non avere mire sulla Crimea, è stato il popolo di quella regione a buttarsi tra le sue braccia. Con un’elezione. Un’elezione incredibile in cui non si sceglie niente, si ratifica quel che vuole l’organizzatore delle elezioni, il burattinaio.

A Damasco. Le elezioni presidenziali del 3 giugno in Siria saranno il caso di “gerrymandering” più sanguinario della storia (gerrymandering: quando i confini di un collegio elettorale sono ridisegnati per favorire un candidato alle elezioni). Dopo tre anni di guerra civile, infiniti episodi di violenza e una repressione militare durissima, gli oppositori del presidente Bashar el Assad vivono ormai tutti in zone al di fuori del controllo del governo, oppure si guardano bene dall’uscire allo scoperto. In aree estese del paese – soprattutto nel nord e nell’est – i seggi non potranno aprire semplicemente perché sono su un territorio “governato” dall’opposizione armata (impegnata in una seconda guerra interna contro l’ala più estrema). Una parte enorme degli elettori non potrebbe votare in ogni caso, perché molti siriani oggi sono fuggiti lontano dalla zona di residenza oppure fuori dalla Siria, come profughi (otto milioni sui ventidue della popolazione totale). Peccato, perché per la prima volta in mezzo secolo sulle schede elettorali compariranno altri nomi oltre ad “Assad”. Le altre due votazioni di Bashar come presidente nel 2000 e nel 2007 non sono state elezioni, ma meri referendum consultivi per dare una verniciata di volontà popolare alla scelta del partito Baath. Alla seconda prova, sette anni fa, il presidente soffrì un lieve calo di consensi con soltanto il 97,62 per cento dei voti contro il 99,7 per cento del suo esordio politico al posto del padre Hafez. Il regime di Damasco sta facendo del suo meglio per far apparire l’appuntamento del 3 giugno come una sfida politica reale. Con poco successo. C’è un servizio della tv siriana in cui un’inviata tenta invano di trovare in un caffè all’aperto almeno un elettore degli sfidanti di Assad per intervistarlo. Nessuno si fa avanti.

Sisi Surprise! Un’altra elezione che sembra la mera ratifica a inchiostro della realtà è quella in Egitto per l’ex generale Abdel Fattah al Sisi, il 26 e il 27 maggio. Secondo il voto degli egiziani all’estero – che sono già andati alle urne, il risultato funziona come sondaggio di ultima istanza – Sisi è al 95 per cento e lo sfidante Hamdeen Sabahi al 5 per cento. Rovesciato il potere dei Fratelli musulmani con un golpe (per quanto acclamato dal popolo, resta un golpe), Sisi ha macinato con inarrestabile prevedibilità tutte le tappe che mancavano per arrivare alla presidenza. L’erede morale di Mubarak ha fatto una campagna elettorale senza eccessi, perché tanto ci pensa già la scatenata base dei fan, che per il rais egiziano prossimo venturo nutrono gli stessi sentimenti adoranti di una pattuglia di dodicenni per gli One Direction. Su tutti, spicca la matrona del Cairo che ha ammonito il presidente americano a non interferire con la parabola trinfante di Sisi: “Shut up your mouse Obama!”. Chiudi il topo, invece che la bocca, un errore che è diventato un remix techno. Novantacinque per cento e club music dura, l’Egitto saluta con queste elezioni l’ingresso in una nuova fase.

Il 25 giugno in teoria ci sono anche le elezioni parlamentari in Libia, fortemente sponsorizzate dagli Stati Uniti, per provare a sbloccare la situazione. Il problema è che a Tripoli in questi giorni è scoppiata la guerra tra il generale freelance Khalifa Haftar e le milizie islamiste e per ora gli scontri sono ancora alle battute iniziali ma è difficile dire cosa succederà da qui a un mese. In generale, come anche ogni studioso di politologia può confermare: il corretto meccanismo democratico non prevede la presenza di una moltitudine di gruppi autonomi e armati di veicoli blindati e mitragliere contraeree che si affronta nelle strade. Altrimenti le urne di cartone non sono una soluzione, sono – come le chiamava Benito Mussolini – i ludi cartacei.

Quando il voto è un cappellino di carta messo sulla canna del fucile, può finire come a Donetsk. La giornalista Julia Ioffe di New Republic ha appena scritto un pezzo che si intitola: Dentro il palazzo di undici piani che si autodefinisce “Repubblica popolare di Donetsk”, in cui racconta come una burocrazia appena nata e già gigantesca palleggia i giornalisti stranieri da un piano all’altro – ogni piano corrisponde a un settore, il decimo è quello della sicurezza – tentando di rifiutare loro il visto per lavorare nei dintorni. Un simulacro ostile di burocrazia, per una Repubblica nata da una sceneggiata democratica impugnata ora come un feticcio. Ci sarebbe da ridere e da citare il teatro dell’assurdo, se nell’est dell’Ucraina il sangue non stesse scorrendo.

di Paola Peduzzi e Daniele Raineri, 24 maggio 2014 - ore 06:59 FQ

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