Renzi e quella lezione di Clinton per spezzare le vere
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catene della sinistra
Contro la gauche aristocratica e moralizzatrice. Le egemonie da rottamare per non finire nella trappola Rodotà
La metafora dell’incatenamento della sinistra è un’invenzione retorica di quell’asso della pubblicistica politica (e della filosofia, s’intende) che fu Karl Marx. In quel capolavoro di prosa politica che è “Il manifesto del partito comunista”, Marx invocò la mobilitazione dei proletari del mondo verso il socialismo, per spezzare quelle catene che solo avevano da perdere. Era un’invocazione molto fisica, molto materiale, ma alludeva anche allo scatenamento di forze umane, oltre che sociali, che avevano in sé le energie per sovvertire un modo di vivere e di pensare. Tuttavia spesso, nei momenti di maggiore ripiegamento su stessi, una forza politica, come un essere umano, nelle sue catene può trovare addirittura ristoro. E siccome quello che viviamo – Cerasa nel suo libro “Le catene della sinistra” (Rizzoli) ne dà conto ampiamente – è uno di quei momenti storici in cui l’incertezza per il futuro è enorme, il ripiegamento verso il poco che ci sembra stabile e rassicurante è più che naturale. E così il vento del secolo nuovo, come il vento del nord di una splendida poesia di Montale, finisce addirittura per rendere “care le catene” e suggellare “le spore del possibile”… Da almeno vent’anni, c’è chi dice da trenta, il mondo è profondamente cambiato. La vittoria degli Stati Uniti e della porzione occidentale del pianeta sulla barbarie sovietica, assieme all’affermazione di nuove potenze politiche ed economiche, ha modificato strutturalmente i meccanismi di funzione globali. Le nazioni che con più fatica si sono adattate al nuovo contesto sono state quelle del vecchio continente, e non poteva essere diversamente. Ma anche gli States, dopo la vittoria nella terza guerra mondiale, hanno dovuto ripensarsi.
La globalizzazione ha progressivamente mostrato che alcune delle più straordinarie invenzioni di sinistra volte al miglioramento delle condizioni oggettive di vita dei più poveri e dei più esclusi, non svolgevano più il loro compito. A partire dal welfare, il più potente motore di democratizzazione degli stati liberali nazionali. A dirla tutta, la sinistra si è ritrovata infilata in un vero cul de sac, per cui molte delle proprie conquiste politiche, erano incredibilmente diventate i motivi di inattese e ripetute sconfitte elettorali. Così la sinistra americana negli anni del reaganismo, così la sinistra britannica negli anni del thatcherismo, così la sinistra tedesca negli anni del kohlismo.
Negli ultimi vent’anni, per reazione, abbiamo conosciuto tre grandi leadership di sinistra nel mondo occidentale e tre, conseguenti, grandi progetti di rottura del sistema d’incatenamento ideologico che queste sinistre tenevano prigioniere. Mi riferisco a Clinton, Blair e Schröder. Ognuna con le loro peculiarità, e nella situazione di vissuti nazionali diversi, eppure tutte queste leadership si sono concentrate nello sforzo di “liberazione” dalle loro catene. E’ bene ribadirlo: ognuno dei sistemi di incatenamento che tali leadership hanno dovuto scardinare aveva dei tratti peculiari. Blair dovette elaborare un approccio alla politica economica che segasse le nobili catene del wilsonismo e facesse tesoro dei progressi collettivi prodotti negli undici anni di thatcherismo. Schröder, vero salvatore della patria germanica, reinventò il welfare con un coraggio e una lungimiranza che ne decretarono la sconfitta elettorale, ma consegnarono al suo paese anni di prosperità diffusa. Il caso Clinton, per certi aspetti, è quello che, attraverso il libro di Cerasa, ricorda con più suggestione la vicenda attuale italiana e, tra un po’, si proverà a dire in quali forme.
Lo schema narrativo di Cerasa mostra però l’elemento più originale della recente storia della sinistra italiana. Solo uno, dei sei capitoli sarebbe inutilizzabile per Blair, Schröder e Clinton. Negli altri cinque si trovano collegamenti tra la sinistra italiana e quella britannica, tedesca, americana. Uno, invece, è italianissimo ed è quello sulla giustizia. Negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Germania, non si produsse nulla di simile a quel corto circuito tra poteri dello stato che imporrebbe una riscrittura dell’equilibrio istituzionale su cui si regge ogni stato di diritto di regime democratico. Seguire la genealogia dello squilibrio odierno è impressionante. A sinistra siamo, in pochi anni, passati dal solidarizzare con gli imputati al fiancheggiare i pm nella loro opera di ricostruzione morale del paese, in nome di un purismo costituzionale assurdo e astorico. Thomas Jefferson, che di costituzioni qualcosa capiva (almeno quanto ne capiscono i membri di Magistratura democratica), diceva che una repubblica deve rivedere e riscrivere la propria carta costituzionale a ogni passaggio generazionale. Perché per l’illuminista Jefferson la ragione umana è in continuo e interminabile (= kantiano) perfezionamento e, dunque, sarebbe assurdo per una nuova generazione non aggiornare la legge fondamentale del proprio ordinamento con gli arnesi delle nuove conquiste dell’intelletto umano. Il conservatorismo istituzionale è, insomma, conservatore. Lo slogan “La Costituzione non si tocca” è di destra. Il “nontocchismo” è reazionario. Parola di Jefferson. Ecco quello di cui oggi avremmo bisogno: che la sinistra si facesse carico di ideare, normare, un nuovo equilibrio tra i poteri dello stato. Insieme con la destra. Ma sulla spinta di una sfida che muove da sinistra e che, da sinistra, metta in discussione ciò che oggi è dato per assodato. La nuova generazione che, intorno alla forte leadership di Matteo Renzi, si sta facendo strada, può riuscire in questo ambizioso intento. Ma appunto lanciando una sfida, com’è nello spirito renziano. Ecco perché non convince del tutto quanto Filippo Andreatta e Giulio Napolitano suggeriscono, nel libro, intorno alla circostanza positiva che rappresenterebbe per la nuova generazione l’essere arrivati al potere con una grande coalizione. Ripensando alle fortunate esperienze generazionali del clintonismo, del blairismo e dello schroederismo, esse si svolsero sempre in un clima dialettico di confronto liberaldemocratico tra vision e policies contrapposte. Difficile ricordare governi di grande coalizione che abbiano modificato, con azione riformista, assi strutturali di un sistema-paese. In Germania, il governo Merkel-Steinbrück di Grosse Koalition si limitò a proseguire l’opera avviata e impostata dall’esecutivo rosso-verde Schröder-Fischer. Certo, c’è la tesi dell’eccezionalismo italiano. Ma è una tesi perdente (che di certo, per altro, Andreatta e Napolitano, non condividono).
Altri spunti, in tal senso, vengono dai capitoli sull’ambientalismo, sul lavoro e sul capitalismo relazionale. Ma la descrizione della sinistra italiana incatenata a un sistema della cultura e dei media che essa pensava, come in passato, di “usare” e da cui, viceversa, si è ritrovata ad essere “usata”, è la più emblematica. E riporta alla mente i primi passi del clintonismo.
Clinton si ritrovò ad avere tra le mani un partito sgangherato, innamorato di un’estetica della sconfitta che aveva tenuto lontani i Democratici per venticinque anni dalla Casa Bianca, salvo l’infelice esperienza seguita alla vittoria di Carter nel ’76. Dal radicalismo gruppettaro di McGovern alla spocchia liberal di Dukakis, i Democratici si erano smarriti in una giungla di posticce estremizzazioni ideologiche. Come la sinistra italiana considera oggi i film di Checco Zalone sottoprodotti culturali e, i suoi spettatori, uomini e donne bisognosi di rieducazione, così la sinistra americana accusava Jerry Lewis di non avere rispetto per i disabili, perché nei suoi film e nei suoi sketch televisivi si trasformava in quella formidabile maschera comica snodabile e squilibrata che suscitava il riso prima ancora di aprire bocca.
Il tessuto culturale della comunità democratica americana era infarcito di banalissimi pregiudizi e acritici sensi di colpa. Negli anni precedenti l’ascesa di Clinton, si era affermato in America il politically correct, che poi emigrerà oltre oceano, inquinando l’intelligenza della sinistra europea. Contro l’idiotismo conformista del politically correct, i luoghi più liberi e produttivi della cultura e della università americana si erano andati orientando così verso la destra, perché quella parte politica offriva loro curiosità e interesse per la vera innovazione. Il trionfo di Reagan si spiega anche in questo modo. Nel 1992, dopo la vittoria alle primarie, Clinton si ritrovò tra le mani un universo simbolico decadente, dichiaratamente collerico e ostile verso il riscatto economico e la vittoria nella guerra fredda determinatisi in seguito all’azione del reaganismo. Contro l’estetica della sconfitta dell’estremismo liberal, il clintonismo costruì una cultura della vittoria tutta nuova a sinistra. E cambiò quel partito in un modo così efficace che, ancora oggi, dopo sei anni di indecifrabile obamismo, il clintonismo rappresenta l’unica possibilità di rivincere tra due anni le presidenziali. Un’altra sfida che il Pd di Renzi può vincere. Costruire un nuovo universo simbolico di riferimento che rimetta in ordine le cose. Una nuova lettura, più documentata e meno banale degli ultimi decenni, che riconsideri l’ultimo ventennio del secolo scorso non come gli anni della degenerazione consumistica dell’Italia e dell’Occidente. Una lettura, piuttosto, che ricordi a tutti che quando venticinque anni fa a Berlino chi stava a est buttava giù quel maledetto muro, riversandosi gioioso nelle strade dell’ovest, correva anzitutto a spendere nei supermercati occidentali quei pochi soldi avanzati nelle tasche. Perché se l’eccesso sfrenato del consumo è dannoso, e anzi patologico, il bisogno al consumo è quanto di più naturale covi nell’animo umano. Anche tra i poveri e gli esclusi, il desiderio di riscatto sociale si compone, in parte, di bisogno di consumo. Si tratta di tornare a servirsi del sistema della cultura per costruire un primato (egemonia è parola intimamente illiberale e antidemocratica) delle nuove idee di sinistra, sfuggendo al condizionamento pestilenziale di questo stesso sistema sulla politica. Usare, quando occorre, cultura e media, e non lasciarsi usare da loro. Ci riuscì il Pci fino alla metà degli anni settanta; ci riuscì il Psi tra gli anni settanta e i primi anni ottanta. Da allora la politica di sinistra s’è sentita figlia di un dio minore, bisognosa di legittimazione da parte di quella aristocrazia culturale che, da Rodotà a Santoro, spediva in parlamento per riconoscimento. E siccome quella aristocrazia era un fenomeno sociale tutto medio-alto borghese, farsi eterodirigere da essa non poteva non produrre uno iato con quegli ultimi che sono la ragione stessa dell’esistenza di una sinistra politica. Ultimi che, per conseguenza, hanno cominciato a votare altrove.
Si tratta, in fondo, di tornare a quel primato della politica che solo garantisce a una democrazia di potersi considerare tale, perché rimette concretamente la sovranità nelle mani del popolo. E solo uno sforzo congiunto di coraggio e di intelligenza può dare alla sinistra la forza di s-catenarsi e farsi guida della nazione in un nuovo tempo che, se presenta tutte le insidie che rendono “care le catene”, offre anche un numero così alto di possibilità di crescita e di riscatto, come mai se ne sono contate nella storia.
FQ. di Antonio Funiciello, 20 maggio 2014 - ore 13:20
“Le catene della sinistra” C. Cerasa edizioni Rizzoli € 16,00