Perché dare il voto ai populisti è più una
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autoassoluzione che una protesta
Il politologo Matthews Flinders, intervistato sul Foglio di giovedì, offriva un’interpretazione assai poco indulgente di quel “voto contro” che è destinato a condizionare in modo profondo il quadro politico europeo dal prossimo 26 maggio. L’analisi di Flinders si contrappone all’interpretazione canonica e conformistica di un fenomeno che in Italia ha caratteristiche peculiari – e ancora più trasversali, dal punto di vista ideologico – ma perfettamente rispondenti alla contro chiave di lettura che Flinders propone, addebitando il fallimento del mercato politico a un problema di domanda, e non di offerta, cioè alle (smisurate) pretese degli elettori, più che alle (inevitabili) inadempienze degli eletti.
Guardando all’Italia, si può onestamente sostenere che l’inefficienza delle istituzioni e del sistema politico sia la causa, di cui il trionfo della retorica antipolitica (e antieuropea) è l’effetto o non occorrerebbe ammettere che sono entrambi effetti di una democrazia “desiderante”, che non tiene più in alcun conto le compatibilità delle scelte politiche e che dopo avere trascinato il sistema dei partiti al default se ne dissocia votandosi alla guruship grillina e agli sfascisti di complemento? In questo schema, guardando il processo politico dal lato della domanda, Grillo non serve per cambiare tutto, ma per non cambiare niente.
La piazza antipolitica, se sul piano dei mezzi è disinvoltamente post democratica e antipartitica e sembra volere sfasciare tutto lo sfasciabile, sul piano dei fini rimane tenacemente conservatrice e ancorata a una visione nostalgica dei diritti e a un culto retorico della sovranità, di quella nazionale, come di quella popolare. Grillo conserva tutto e non butta via niente dell’ideologia del “non toccare”: l’articolo 18, la Costituzione, la sanità pubblica, le pensioni, la piccola e media impresa nazionale e l’agricoltura tradizionale, i piccoli ospedali e i piccoli tribunali, il piccolo mondo antico dell’Italia a chilometro zero e tutte le buone cose di pessimo gusto che arredano l’immaginario retrodatato della “cultura popolare”. L’antipolitica, insomma, promette novità, non innovazioni, cambiamenti, non riforme. Non è una rivolta morale, ma un fenomeno sostanzialmente trasformistico, anche se riguarda il popolo, e non le élite.
L’antipolitica consente anche di rinnovare una lettura “criminologica” del default italiano, quell’esorcismo psico-politico che ricorre ciclicamente nella storia nazionale e che permette di nascondere dietro le teste (più o meno metaforicamente) mozzate dei politici sbagliati (ladri, malversatori, forchettoni…) l’ombra sinistra delle politiche sbagliate e di dissociare moralmente gli elettori dalle responsabilità politiche degli eletti. Le vittorie sono sempre democratiche, le sconfitte mai.
In questo, la metafora della Casta offre una rappresentazione a suo modo perfetta ma falsa del rapporto tra cittadini e istituzioni politiche. La democrazia italiana non è stata affatto deviata o dirottata da una classe politica parassitaria. E’ stata una democrazia di scambio, fondamentalmente particolaristica, in cui il “confine” tra società e politica è sempre stato a tutti i livelli, in alto come in basso, puramente formale. La partitocrazia, che nel passaggio tra la Prima e la Seconda Repubblica è sopravvissuta come modello e stile di governo anche alla fine dei partiti, non è stata una dittatura, ma un regime di consenso, la forma (certo anomala, ma non imposta) del patto democratico.
La crisi italiana, in teoria, oggi dimostra l’insostenibilità di questo patto democratico e l’inefficienza di un processo politico in cui il trade off tra governo e consenso sia destinato ad ampliarsi. In pratica, questa verità rischia però di essere democraticamente contraddetta dall’ennesimo trionfo del “nothing’s impossibile”. E’ attorno a questa verità, e alla possibilità di serbarne un senso non puramente “scientifico”, che si giocano i destini dell’Italia politica. Servirebbe però una stampa meno corriva e una politica, o quel che ne resta, più weberianamente consapevole di sé e del proprio mestiere.
di Carmelo Palma
Condirettore di Stradeonline.it. 19 maggio 2014 - ore 11:53