Senza F-35 l’Italia sarà meno rilevante

(e risparmia niente)

Un quaderno dello Iai spiega la convenienza militare, economica e strategica degli aerei americani

Con gli F-35 c’è un problema di percezione. Di sguardo lungo, di capacità di spalmare quei miliardi (tanti) che l’Italia ha speso e spenderà sui vantaggi di lungo periodo (militari, strategici, industriali), che sembrano troppo lontani, meno immediati di tutto quello che potremmo farci, ora, se risparmiassimo i soldi dei velivoli e li usassimo subito, senza pensare a quello che viene dopo e a quello che succede fuori dai nostri confini. Mercoledì la commissione Difesa della Camera ha approvato un documento del Partito democratico che impone una moratoria sul programma di coproduzione e acquisto degli F-35 e un dimezzamento dei suoi costi. Il Pd è stato l’unico partito a votare il documento. Forza Italia e Lega hanno votato contro in sostegno al mantenimento del programma, il Movimento cinque stelle e Sel si sono astenuti: per loro il dimezzamento non è sufficiente, il programma vogliono cancellarlo per intero.

“Nei prossimi vent’anni l’Italia dovrà rottamare 253 velivoli da combattimento”, dice al Foglio Alessandro Marrone, ricercatore nell’area Sicurezza e Difesa allo Iai, Istituto Affari Internazionali, e coautore di un saggio che sarà presentato martedì. “E’ stato calcolato che per sostituirli sarebbero bastati 131 aerei di nuova generazione, la quinta: gli F-35. Nel 2012 il governo Monti, pressato dalla polemica sulle politiche di austerità e da una contrarietà di fondo alla spesa militare, ridusse la commessa di un terzo, a 91 velivoli, ma questo non servì a salvare il governo dalle accuse. Dopo poche settimane ci si dimenticò del taglio e riprese la pressione per l’eliminazione del programma”. Ora il partito di governo ci prova di nuovo, cerca di togliere argomenti al partito dei massimalisti e dei populisti e propone di ridurre di un’altra metà le spese già ridotte di un terzo, ma il rischio è che, come nel 2012, questo non sia sufficiente per i massimalisti, e al tempo stesso produca delle conseguenze notevoli, e un effetto sistematico sulle strategie industriali, di difesa e di diplomazia dell’Italia. Il documento approvato in commissione non è vincolante, e tutto deve essere ancora deciso in Parlamento, probabilmente dopo la pubblicazione del Libro bianco della Difesa, dove il quadro strategico dell’Italia sarà definito in maniera chiara, ma è sintomo di una temperie che è tutta politica, e che manca di uno sguardo ampio.

Cercano di fornirlo, questo sguardo, proprio i ricercatori dello Iai, nel loro saggio (o meglio, quaderno) intitolato “Il ruolo dei velivoli da combattimento italiani nelle missioni internazionali: trend e necessità” e i cui autori sono, insieme ad Alessandro Marrone, Vincenzo Camporini, Tommaso De Zan, Michele Nones, Alessandro R. Ungaro. Il documento è ampio e come suggerisce il titolo parte da lontano, dall’analisi di tutte le volte che l’Italia ha partecipato a una missione internazionale negli ultimi trent’anni. Ma una parte corposa, quella finale, è dedicata agli F-35 e dà la risposta a molte domande, che poi sono una sola: perché senza gli F-35 l’Italia ci perde.

C’è una ragione tecnica e militare per cui servono gli F-35, ed è che non c’è nessuna alternativa al caccia sviluppato in Texas, che è l’unico velivolo da combattimento di quinta generazione attualmente in circolazione (e questa è una colpa dell’Europa, che non ha mai trovato un accordo per fare gli investimenti giusti quando sarebbe stata in tempo, e si è dovuta accodare al programma americano). Certo, si potrebbero riammodernare gli aerei di quarta generazione, come gli Eurofighter o i Rafale (in parte sarà fatto), ma non sarebbe la stessa cosa, e alla lunga le capacità militari italiane ne risentirebbero. Secondo il quaderno dell’Iai sono quattro le caratteristiche operative in cui gli F-35 eccellono. Al Foglio le ha descritte uno degli autori, Alessandro Ungaro: “L’interoperatività, cioè il fatto di disporre, tra alleati, delle medesime tecnologie (e il programma degli F-35 è condiviso da sette stati della Nato, tra cui cinque membri dell’Unione europea, più Israele, Australia, Giappone e Corea del sud, ndr), le capacità netcentriche, cioè le capacità di connessione attraverso altri nodi della rete, la bassa osservabilità, che riduce le possibilità che l’aereo sia abbattuto, e la deployability, la capacità di intervento a qualsiasi distanza”. C’è poi una ragione strategica, che è quella di rinnovare la “polizza di assicurazione” (così la definisce l’Iai) costituita dall’alleanza con l’America e con la Nato. Indebolire il programma degli F-35 costituirebbe un problema a livello diplomatico (anche nella sua ultima visita il presidente americano Barack Obama ha ricordato all’Italia le sue responsabilità), a livello di partecipazione (se non stai dentro ai programmi dei tuoi alleati poi non puoi sperare che gli alleati ti prendano sul serio) e a livello operativo (è difficile agire insieme in missione se non si usano gli stessi strumenti).

Poi c’è una ragione di interessi industriali. Il segretariato generale Difesa ha per legge il compito di sostenere l’industria militare italiana, e per l’Italia gli F-35 sono un’opportunità eccellente, ma anche “una responsabilità”, ci dice Ungaro. L’Italia non solo coproduce parte degli aerei e genera un indotto notevole, ma nello stabilimento di Cameri (Novara) è situato l’unico centro al di fuori degli Stati Uniti che avrà compiti di manutenzione e upgrade del velivolo. Questa “è una novità per la politica estera americana, e una vittoria notevole del governo italiano”.

E i soldi? Il discorso dei soldi (gli F-35 costano troppo! Sono uno spreco!) va combattuto con i dati, con il fatto che la manutenzione della vecchia flotta, che risale in buona parte agli anni Settanta e Ottanta, sta diventando sempre più costosa, e che quando la produzione degli F-35 entrerà a regime diventerà sempre più conveniente, ma soprattutto va combattuto con le ragioni di lungo periodo, che sono quelle su cui il saggio dell’Iai si concentra, sulla necessità di controbattere al discorso populista. “Bisogna cercare a tutti i costi di mostrare come gli investimenti nelle Forze armate sono legate a doppio filo agli interessi nazionali”, spiega Marrone. Non solo a quelli geopolitici: evitare che i teatri internazionali esplodano evita l’afflusso di profughi, il controllo pacifico dei territori consente il libero commercio e il transito sicuro delle fonti energetiche e delle materie prime, e così via. E’ sulla base degli interessi di lungo periodo che anche le infinite denunce dei problemi tecnici degli F-35 devono essere valutate. I problemi ci sono, come succede sempre in ogni produzione innovativa. Ma prima di allarmarci, guardiamo all’elenco di chi è entrato nel programma, anche di recente. Se un paese come Israele, che della tecnologia militare prende solo il meglio, ha deciso di comprare una ventina di F-35, una ragione ci sarà.

© - FOGLIO QUOTIDIANO, 12 maggio 2014 - ore 09:34

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