Ecco cosa c’è di vero nella mazzata renziana
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ai burocrati di stato
Stipendi, tetti, passi avanti, ribellioni. Il governo Leopolda sfida i manager pubblici. Il caso Bankitalia e Bologna
Dal punto di vista tecnico, la questione è la seguente: da domani mattina, giovedì Primo maggio, il tetto fissato dal governo Renzi ai compensi dei dirigenti della pubblica amministrazione entrerà in vigore, verrà applicato anche agli attuali vertici della pubblica amministrazione e porterà gli stipendi dei manager pubblici a una cifra massima pari all’assegno annuo incassato dal presidente della Repubblica: 239.181 euro (al lordo delle tasse). Dal punto di vista politico, invece, la questione è più significativa e potremmo riassumerla così: da domani mattina, giovedì Primo maggio, il governo Renzi regalerà ai manager di stato una sforbiciata alle buste paga persino più pesante rispetto a quella prevista ai tempi del governo Monti (nel 2012 Monti introdusse un tetto pari allo stipendio del primo presidente della Corte di Cassazione, 302.937, al lordo dell’Irpef, valido però solo per i dirigenti della pubblica amministrazione e dei ministeri e non per le società controllate dallo stato). Una sforbiciata che coinvolgerà anche i presidenti di aziende controllate e quotate come Eni, Enel, Finmeccanica e Poste (ma non gli amministratori delegati), i magistrati (anche se qui Renzi ha rinunciato a toccare i tetti intermedi come aveva promesso in un primo momento), le alte gerarchie militari, i professori universitari. Che dovrebbe far risparmiare 500 milioni di euro all’anno a Palazzo Chigi. Che avrà un impatto in istituzioni storicamente intoccabili come Banca d’Italia (nel testo finale del provvedimento taglia Irpef, che inizierà martedì il suo iter in Senato, è previsto Palazzo Koch, “nella sua autonomia organizzativa e finanziaria”, debba adeguare il proprio ordinamento ai principi previsti dal provvedimento, e significa che il governatore Visco si ritroverà con la metà dello stipendio a fine anno, da 495 mila euro a 240 mila euro). E che, insieme con il provvedimento sulla pubblica amministrazione annunciato dal premier alla fine del Consiglio del ministri (niente decreto legge), costituisce un importante tassello della battaglia del governo contro i burocrati di stato. Si dirà: è tutto così lineare, non c’è un trucco, non c’è un inganno, non c’è una “pararenzata” in questo provvedimento? Filippo Patroni Griffi, ministro della pubblica amministrazione di Mario Monti, la mette così.
Dice Patroni Griffi: “Sotto alcuni punti di vista Renzi è in continuità con Monti e il tetto previsto dal governo è simile a quello fatto da noi. E’ difficile dire quante siano le persone davvero coinvolte in questa tagliola, e per quanto ne so io, per esempio, nel mondo della magistratura non saranno molti i soggetti colpiti dal taglio. Anche in questo caso, poi, non sono stati coinvolti i cda di società come Ferrovie dello stato, Cassa depositi e prestiti, Poste italiane e le loro controllate che emettono titoli e sarà compito del presidente del Consiglio usare la sua moral suasion per adeguare questi stipendi al nuovo corso. Di positivo, però, in questo provvedimento, a mio avviso, c’è sicuramente l’estensione del taglio alle società pubbliche. A noi non era riuscita. Ora occorre vedere se in tutti i casi, laddove cioè il governo può agire non direttamente, il taglio diventerà reale”. I casi a cui si riferisce l’ex ministro di Monti sono legati a due tipologie. Da un lato ci sono i casi degli organismi costituzionali come Camera, Senato, presidenza della Repubblica, Corte costituzionale che godono di autonomia anche in termini di bilancio e che non possono essere costrette direttamente dal governo ad abbassare i compensi dei dirigenti pubblici. Dall’altro lato ci sono i casi delle aziende a maggioranza pubblica quotate in Borsa (comprese le municipalizzate e le multiutiliy), e anche esse sono escluse dal taglio.
Sul primo fronte, Renzi ha chiesto informalmente a tutti gli organismi costituzionali di garantire una riduzione delle spese complessive di almeno il 5 per cento rispetto al 2013 (entro il 2014, la Camera dovrà tagliare 28 milioni di euro di spese, il Senato 17 milioni, la Corte costituzionale 4 milioni, il Quirinale 1 milione). Sul secondo fronte, invece, la partita è scivolosa e il successo del governo non è garantito. Anche per le aziende quotate Renzi ha chiesto ai sindaci che controllano le multiutiliy un taglio del 25 per cento della retribuzione degli attuali amministratori delegati. La prima città con cui Renzi ha provato a misurare la propria moral suasion è stata Bologna. Tre giorni fa, il gruppo Pd in consiglio comunale ha preparato un ordine del giorno per chiedere a Tomaso Tommasi di Vignano, presidente di Hera, società controllata a maggioranza dai comuni di Bologna, Modena e Ravenna, di adeguare il suo stipendio al nuovo regime renziano. Obiettivo: passare da 475 mila euro a 240 mila. Il presidente di Hera però non ci sta. Si ribella. Sfida il sindaco di Bologna, Virginio Merola, e dunque anche Renzi. Dice che la sua azienda va bene così e che quello stipendio è meritato. Ingaggia un duello con il consiglio comunale. E lo vince. Merola (Pd) convince i consiglieri (del Pd) a ritirare l’ordine del giorno. La moral suasion di Renzi a Bologna dunque non ha funzionato. Sarà davvero l’unico caso?
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di Claudio Cerasa – @claudiocerasa 30.4.2014