New York, il prezzo del finanziamento. Ford salvò

la città con i soldi federali, ma in cambio di riforme choc

New York. Il presidente Gerald Ford non ha mai pronunciato, rivolto alla città di New York, le parole “drop dead”, lasciamola morire, che s’impicchi con la corda dei suoi macroscopici errori di gestione, ma il senso del suo discorso nell’ottobre del 1975 era esattamente quello riportato a nove colonne dal Daily News. L’espressione rimasta nell’uso comune è un falso storico che esprime una verità politica: Ford non avrebbe mosso nemmeno un dollaro federale per ripianare il buco della città. New York era precipitata allora nel fondo più oscuro della sua esistenza, la chiamavano la “Fear City”, la città della paura, un covo di criminalità abbandonato dalle famiglie della middle class, in cerca di sicurezza nei sobborghi, e con un bilancio da bancarotta. I luoghi del degrado di ieri sono quelli del turismo di oggi: Times Square era il distretto dei bordelli, Central Park l’arena dove si sfidavano le gang in stile “guerrieri della notte”, il Lower East Side dominato dagli hipster era il regno del degrado urbano. Era il risultato di decenni di mala gestione amministrativa, strapotere sindacale, corruzione e incesti politico-economici di varia natura. Non era la prima volta che New York attraversava una buriana fiscale e sociale, ma quella volta il rischio di default era altissimo. Il sindaco, Abraham Beame, aveva già pronta la dichiarazione di bancarotta, a cui la municipalità avrebbe dovuto fare immancabilmente ricorso se il sindacato degli insegnanti non avesse investito il suo fondo pensionistico in titoli emessi dal comune. Quando era a tanto così dalla bancarotta, la città ha chiesto aiuto allo stato federale, che in tutta risposta ha detto, anche se non l’ha detto, “drop dead”.

Un mese più tardi, però, Ford ha firmato un bailout d’emergenza della città, salvando New York con un prestito temporaneo da 2,3 miliardi di dollari erogato dietro vincolanti promesse di riforma. Era l’ultima cosa che il presidente avrebbe voluto fare, e nell’illustrare il piano di salvataggio ha ricordato un principio americano fondamentale: “Non permetterò che i contribuenti di altri stati e città paghino il prezzo degli errori politici di New York”. Il prestito fu erogato a condizione che la città iniziasse un percorso di riforme che avrebbe ripagato in breve e con gli interessi il bailout dello stato. Il consiglio municipale ha approvato un taglio delle spese con l’accetta, è stato introdotto un aumento delle tasse da 200 milioni di dollari, le banche hanno accettato di ridurre i tassi e di posporre il riscatto dei prestiti, la struttura dei sindacati è stata riformata, è stata messa in cantiere la privatizzazione dei servizi fondamentali. Il presidente ha firmato il salvataggio, ma chiarendo le condizioni: “La mia posizione non va fraintesa. Se le parti non riusciranno a mantenere le promesse, sono pronto a fermare l’assistenza federale”. Ha fissato una revisione dei progressi ogni sei mesi e ha ordinato al Congresso di preparare la procedura legale necessaria per un’eventuale bancarotta, che poteva essere dichiarata da un momento all’altro. New York si è infine liberata dalle spire del default, non grazie al bailout in sé ma per il prezzo altissimo imposto dal garante federale in termini di riforme a medio-lungo termine. E Ford ha potuto imporre le riforme soltano perché era seriamente, e non solo retoricamente, disposto a lasciar fallire New York, cura in linea con la pragmatica mentalità americana. L’economista Megan McArdle ha riassunto il concetto nel suo ultimo libro: fallire non è un problema, il problema è fallire bene.

FQ. di Mattia Ferraresi   –   @mattiaferraresi, 28 febbraio 2014 - ore 09:42

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