Nel pubblico impiego la carriera serve

Le riforme del pubblico impiego degli anni ’90

hanno smantellato le carriere fissato per legge e sostituite con premi di produzione annuali. Che però non riescono a produrre incentivi significativi. La formalizzazione delle carriere e l’indipendenza dalla politica.

DOVE NASCONO LE DIFFERENZE

Nel pubblico impiego le retribuzioni dei vertici sono “troppo” alte e quelle della massa dei dipendenti “troppo” basse? La serie di articoli di Roberto Perotti e Filippo Teoldi fornisce solidi elementi, basati su confronti internazionali, che spingono verso una risposta affermativa alla prima parte della domanda e qualche indicazione sulla seconda parte. Naturalmente, i confronti internazionali sono sempre in parte opinabili: gli insegnanti italiani, pagati meno, lavorano quanto quelli inglesi?

Un fatto, in ogni caso, emerge con chiarezza dai dati di cui disponiamo. I differenziali retributivi si sono ampliati in misura considerevole negli anni Duemila. Consideriamo, ad esempio, il personale dei ministeri: nel 2012 poco meno di 160mila persone, di cui circa 300 dirigenti di prima fascia e 2.300 dirigenti di seconda fascia. Secondo il Conto annuale della Ragioneria, nel periodo 2001-2012 la retribuzione media dei dirigenti di prima fascia è cresciuta di quasi il 40 per cento, quella dei dirigenti di seconda fascia del 21 per cento e quella del personale non dirigente del 27 per cento. Nel 2012, la retribuzione media dei dirigenti di prima fascia (183mila euro annui) è pari a 6,4 volte quella del personale non dirigente e a 2,1 volte quella dei dirigenti di seconda fascia. L’andamento delle retribuzioni medie è illustrato nella figura, che evidenzia l’allargamento della forbice verificatosi negli anni Duemila (con qualche sintomo di restringimento nell’ultimo anno considerato).

I dati del Conto annuale partono dal 2001, ma sappiamo che il processo è iniziato negli anni Novanta con la contrattualizzazione del rapporto di lavoro dei dirigenti e con la cosiddetta “privatizzazione” del pubblico impiego. Un processo di riforma pensato per rendere più efficiente l’amministrazione, responsabilizzando i dirigenti e agganciando retribuzioni a risultati. Buone intenzioni rimaste sulla carta: la natura dell’amministrazione e il suo modo di operare non sono cambiati in misura apprezzabile. I poteri effettivi dei dirigenti non sono cambiati. La capacità effettiva di valutazione del sistema neanche. Sono cambiate le retribuzioni. L’evidenza aneddotica della seconda metà degli anni Novanta narra di retribuzioni di alti dirigenti raddoppiate dall’oggi al domani. Anche avendo una grande fiducia nelle teoria e pratica del new public management (e chi scrive deve confessare di non averne affatto), sarebbe stato consigliabile posporre l’adeguamento delle retribuzioni al nuovo ruolo di manager a una verifica del funzionamento e dei risultati delle riforme.

LA QUESTIONE DEGLI INCENTIVI

La questione più importante è il sistema degli incentivi del pubblico impiego. Le riforme degli anni Novanta hanno smantellato un sistema di carriere fissato per legge (che certamente non funzionava) e lo hanno sostituito con un sistema di premi di produzione annuali (la retribuzione di risultato). La difficoltà (se non l’impossibilità) di misurare la produttività in molte attività della pubblica amministrazione ha fatto sì che l’efficacia di quel sistema sia molto carente (con qualche eccezione che non modifica il quadro d’insieme). Per i ministeri i premi sono erogati sulla base del raggiungimento degli obiettivi indicati nella direttiva del ministro, obiettivi che in pratica sono individuati dagli stessi uffici che dovrebbero poi realizzarli (“se vuoi potenziare una data linea di attività, fattelo dare come obiettivo dal ministro”). Fuor d’ironia, tutto l’esercizio non è privo di utilità: costringe chi ha la responsabilità di un ufficio a sistematizzare e razionalizzare la propria attività. Non è sufficiente, tuttavia, a produrre incentivi significativi per un rapporto di lavoro di lungo periodo come quello che caratterizza le burocrazie. Questi non possono prescindere da un sistema di carriere, predeterminate ma certamente non automatiche come quelle del passato. La vicenda delle progressioni orizzontali e verticali generalizzate di metà degli anni Duemila, il “tutti promossi” che documentammo qualche anno fa, lo testimonia. Un sistema di carriere serio dà un ruolo alla valutazione del personale: determinare la velocità delle carriere. Una valutazione che produca effetti nel tempo e abbandoni la pretesa di misurare e premiare i singoli anno per anno. Se i posti disponibili nel livello superiore sono un numero predeterminato, la valutazione dovrà per forza di cose essere selettiva. I premi di produzione annuali in un contesto in cui non si riesce a misurare la produttività finiranno invece per essere distribuiti a pioggia.

La formalizzazione delle carriere in una burocrazia serve anche a un’altra finalità: garantirne l’indipendenza dal potere politico. Abbiamo visto, all’inizio dell’articolo, come siano importanti i differenziali retributivi tra dirigenti di prima fascia e il resto del personale. Ma come si diventa dirigenti? Per quelli di seconda fascia, di regola, occorre aver vinto un concorso pubblico. Per essere promossi in prima fascia non c’è nessun concorso: occorre essere nominati dal ministro. Considerando questo dato insieme allo spoils system viene da dire: altro che separazione tra politica e amministrazione!

24.02.14 di Giuseppe Pisauro, la Voce info

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