Provocazione maggioritaria. Renzi, la legge elettorale
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e gli ostacoli sulla strada del governo Leopolda
Il sindaco scommette sul doppio turno. La partita dei bersaniani, la battaglia delle preferenze, l’ok del Quirinale
Tattiche. Conteggi. Aperture. Mediazioni. Bocciature. Provocazioni. Messaggi in codice. E un risultato che alla fine si presenta così: legge elettorale con sbarramento al 5 per cento (che sale all’8 per i partiti fuori dalla coalizione), ripartizione dei seggi a livello nazionale, premio di maggioranza che scatta per le coalizioni che superano il 35 per cento, ballottaggio per le prime due coalizioni qualora nessuna dovesse arrivare al 35 per cento, e divieto di apparentamento tra il primo e il secondo turno. Politicamente, dunque, la legge elettorale disegnata ieri da Matteo Renzi accoglie alcune richieste arrivate dal fronte degli alfaniani e dei bersaniani (fronte che si muove come se fosse un unico blocco, un unico partito, il partito degli Alfa-Bersa), e le richieste sono in sostanza due: doppio turno e sbarramento al 5 per cento. Per il resto il succo della giornata di ieri è che la proposta di Renzi concede qualcosa agli avversari ma tutto sommato si presenta come un sistema elettorale a vocazione maggioritaria: i futuri leader della coalizione avrebbero infatti la garanzia di governabilità grazie al premio di maggioranza e attraverso le liste corte avrebbero anche un controllo sulla selezione dei parlamentari che non gli sarebbe garantito in caso di introduzione delle preferenze. Attorno a quest’ultima parola, “preferenze”, si giocherà l’ultima delicata partita a scacchi del segretario: oggi Renzi, forte del mandato ricevuto in direzione, si presenterà ai gruppi parlamentari della Camera e capirà quanto la richiesta dei bersaniani di introdurre preferenze sia un tentativo di trovare una mediazione sulle virgole della legge o sia un tentativo vero di sfidare a duello il segretario. I gruppi del Pd, come ha sperimentato Bersani all’inizio della legislatura, sono una palude difficilmente controllabile, e anche l’ex segretario, ai tempi della candidatura di Franco Marini al Quirinale, aveva ricevuto un mandato pieno dalla direzione per seguire quella strada ma era poi stato travolto dall’uragano generato dallo scontro tra le correnti del Pd. Renzi ieri ha detto che la sua proposta è questa e non si cambia e i calcoli del segretario dimostrano che il 27 gennaio la legge elettorale potrebbe davvero arrivare alla Camera ed essere approvata in tempi brevi. I calcoli sono questi, seguiamo il filo.
Renzi ieri ha ribadito che il percorso della legge elettorale (che domani arriverà in commissione Affari costituzionali) dovrà seguire tappe forzate e che entro febbraio dovrà essere approvata a Montecitorio per essere vagliata dal Senato entro la metà di marzo. Il segretario del Pd, ribaltando l’impostazione data finora dal governo, ha aggiunto che le riforme costituzionali (riforma del Senato, abolizione del titolo V) dovranno essere approvate in prima lettura entro le elezioni europee (che sembrano essere la vera preoccupazione del sindaco di Firenze). Ma ha anche detto che si impegnerà affinché la nuova legge sia approvata non al termine del percorso di riforme ma all’inizio. I calcoli di Renzi dicono che per tenersi aperta la finestra elettorale di maggio la legge dovrà essere vagliata entro i primi di marzo (il 15 marzo è la data ultima per far cadere il governo). Ma nonostante le scazzottate di ieri con i cuperliani (Renzi ha rimproverato Cuperlo di difendere le preferenze in modo strumentale, “Gianni alle ultime elezioni è stato eletto nel listino bloccato”, e il presidente del Pd ha lasciato la sala) l’impressione è che il partito sia tutto sommato compatto attorno alla proposta del segretario. Ieri anche Dario Franceschini, ministro dei Rapporti con il Parlamento, ha chiesto di non dividersi sulla proposta e anche a Palazzo Chigi gli umori sono diversi rispetto a quelli registrati giovedì scorso durante l’incontro con il sindaco di Firenze. Letta non ha apprezzato lo stile delle trattative condotte dal segretario, continua a considerare un errore aver restituito a Berlusconi quella centralità politica di cui il governo era riuscito a fare a meno ma non tifa per una spaccatura e ha apprezzato la mediazione di Renzi con Alfano. Il risultato della partita, a questo punto, dipenderà dal livello di ostruzionismo che proveranno ad azionare i bersaniani (ieri la direzione ha approvato la relazione di Renzi con 131 voti favoreveli e 34 astenuti). E i numeri dei gruppi parlamentari dicono che la partita si gioca su queste cifre: i bersaniani contano su una settantina di unità (più una trentina di giovani turchi), i renziani, sommando anche i franceschiniani, arrivano a un centinaio. I lettiani sono diciassette. In mezzo un oceano di correnti. Renzi è convinto che l’oceano si muoverà seguendo il leader del Pd ed è sicuro che i suoi avversari si preparano a fare una brutta figura. La palude è imprevedibile. Ma questa volta sarà difficile che gli avversari del segretario abbiano la forza di affondare, da dentro il Pd, la figura politica che esce dalla direzione di ieri: il governo Leopolda. Un governo che da ieri inizia a piacere, e molto, anche a Giorgio Napolitano.
© - FOGLIO QUOTIDIANO di Claudio Cerasa – @claudiocerasa