Il giornale della discordia

Stessi titoli della Stampa: ieri contro Craxi, oggi contro la riforma

A metà degli anni Ottanta del secolo scorso Bettino Craxi pensò fosse giusto salvare l’economia italiana abolendo la scala mobile dei salari, e la abolì per decreto. Fu un gesto di rottura delle convenzioni classiste che avevano portato Gianni Agnelli e Luciano Lama all’accordo inflazionistico un decennio prima. Tutti avevano capito che quella situazione era malata, che così non si poteva più andare avanti. Ma le convenzioni erano quelle, i sindacati dovevano essere parte di una concertazione cogente per le politiche pubbliche, c’era un potere di veto da rispettare, il Pci di Enrico Berlinguer se ne faceva garante nelle piazze e in Parlamento, e la Democrazia cristiana era abituata a portare la vacca sotto il toro, credeva di poter risolvere le questioni di vita e di morte della vita italiana con il debito pubblico, e se ne impipava del fatto che nel mondo stava montando una certa idea rivoluzionaria della funzione dei mercati, delle libertà economiche, dell’iniziativa privata, con Reagan e la Thatcher. Il titolo della Stampa di Torino, quello ricorrente, il titolo modello per descrivere quel fatto, fu: “Il decreto della discordia”. Era un modo di stare un po’ di là e un po’ di qua, di esercitare la tiepida virtù della conservazione nella forma floscia del corteggiamento dei più urlanti e rancorosi avversari della modernizzazione politica e di struttura del paese. Così sul decreto “della discordia” gli italiani votarono e si incaricarono, approvandolo, di smentire il carattere come sempre pusillo della borghesia imprenditoriale italiana e del suo giornale di riferimento. La maggioranza andò a un’iniziativa della minoranza militante dei socialisti craxiani.

L’accordo per la riforma elettorale e istituzionale intervenuto adesso tra Renzi e Berlusconi, che sono la maggioranza del paese e una quasi minoranza alle Camere e sui giornali, è un po’ come il decreto Craxi. E’ una sfida alle convenzioni della politica politicante, e ai suoi pregiudizi trattati con indecente moralismo dalle élite virtuose che vogliono sostituire le carte bollate delle procure ai pronunciamenti politici dei leader elettorali del paese. Il titolo della Stampa è lo stesso di ieri: “La legge della discordia”. C’è dunque qualcosa di genetico, un imprinting della inerzia politica e civile, in questi comportamenti. Se nel giornalismo italiano non ci fossero gli Ostellino, i Panebianco, i Battista, gli Orsina o i Ricolfi, diteci a che punto sarebbe la sua credibilità intellettuale e politica. Certi titolisti, e chi lascia loro fare in quel modo il mestiere di discordatori professionali, fanno capire molte cose. La riforma elettorale è necessaria. Quella istituzionale è necessaria. Perfino Enrico Letta e i piccoletti protestatari sembrano averlo capito, aiutati dal doppio turno che salva qualche capra e qualche cavolo. Lo capiranno anche le redazioni di giornale imbizzarrite appena vedono che due cavalli prendono, non si dica il galoppo, ma almeno il trotto? E minacciano di mettere in movimento la gara spenta dell’immobilismo che piace ai forti.

FQ, 20 gennaio 2014 - ore 21:30

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