La crisi dei cent'anni

Lo choc finanziario è stato un episodio grave,

ma più preoccupante ancora è la nuova tendenza occidentale alla stagnazione. Troppi risparmi ma i capitalisti sono loffi, dice Wolf sul Financial Times. Come uscirne?

“L’Europa non arriverà al punto di rompere la moneta unica, né si spingerà sulla strada impervia dell’unione fiscale e politica – ha detto una volta al Foglio David Marsh, giornalista britannico e storico del processo d’integrazione europeo – Piuttosto continuerà con la strategia del ‘muddling through’, del ‘tirare avanti barcamenandosi’. Il vostro continente è in una situazione così disgraziata da non riuscire nemmeno a dare vita a una crisi decente”. Noi europei saremo pure troppo sazi e inetti, al punto da non meritarci nemmeno “una crisi decente”, ma la novità è che adesso per l’intero occidente industrializzato, Stati Uniti inclusi, “una crescita decente” rischia di diventare un miraggio. Meglio abituarci tutti all’idea di un “futuro stagnante”, ha scritto ieri sul Financial Times un altro columnist britannico, Martin Wolf. “Sluggish” – che in inglese colloquiale vuol dire “lento” e “pigro”, e che in gergo economico sta appunto per “stagnante” – è infatti l’aggettivo chiave dell’editoriale. Che prende le mosse da un recente discorso di Larry Summers, già segretario al Tesoro con Bill Clinton e mancato governatore della Fed con Barack Obama, e dalla sua evocazione di una “stagnazione secolare”. La crisi dei cent’anni, degna prosecuzione globale delle prove generali condotte in Giappone per oltre un ventennio, non avrebbe avuto inizio a Wall Street, come vuole la vulgata. “Gli eccessi finanziari – sostiene infatti Wolf – nascondevano loro stessi, e anzi erano una risposta a, debolezze strutturali preesistenti”. L’eccesso di risparmio accumulato in giro per il pianeta, “che può essere anche ribattezzato come ‘una penuria d’investimenti’”, era invece il problema fondamentale: “C’erano più risparmi in cerca di investimenti produttivi di quanti non fossero gli investimenti produttivi pronti a veicolare quei risparmi”. Il fatto che per anni le economie asiatiche, in compagnia di quella tedesca, abbiano registrato enormi surplus delle partite correnti e quindi abbiano esportato capitali nel resto del mondo, confermerebbe quella tendenza. Negli Stati Uniti, poi, tutti questi risparmi furono investiti in qualche modo, certo, ma alimentarono bolle immobiliari e finanziarie piuttosto che finire nelle mani di capitalisti con una idea precisa di sviluppo.

Nel 2007-’08, però, la bolla esplode. A quel punto si congelano i mutui e i prestiti facili che fino a quel momento erano stati foraggiati dai risparmi abbondanti, quegli stessi risparmi che il capitalismo più produttivo aveva snobbato. Così oggi il problema è perfino peggiore: “La bolla del risparmio, allora, ha agito come un vincolo alla domanda aggregata. Ma poiché quella bolla era anche connessa a un tasso d’investimento debole, essa implicava pure prospettive di crescita lenta. Tale difficoltà viene prima della crisi. Oggi, tuttavia, la crisi l’ha aggravata ancora di più”. Rimane l’eccedenza di risparmio globale rispetto agli investimenti, dunque, però adesso in aggiunta è venuta a mancare la domanda e pure l’offerta è latitante. Le Banche centrali, e in alcuni casi gli stati, si sono svenati per evitare crolli nel settore finanziario, per attutire il crollo della domanda e per rilanciare la crescita. I risultati però sono quelli che sono: l’Eurozona rimane a ballare attorno allo “zero virgola”, e anche i più vitali Stati Uniti (che quest’anno cresceranno di oltre il 2,5 per cento) sono comunque distanti dalla tendenza registrata dagli anni 80 fino alla vigilia di Lehman Brothers.

I banchieri centrali rivendicano di avere altre frecce nei loro archi, tra cui la fissazione di obiettivi più audaci del mero controllo dell’inflazione, l’acquisto di asset più disparati o anche l’imposizione di tassi negativi sui depositi delle banche presso gli Istituti centrali, proprio per cercare di “punire” l’eccesso di risparmio immobile e convincere così a prestare e a investire. Wolf alle Banche centrali interventiste crede eccome. Ma non basta, aggiunge. Assieme a Summers, che a dire il vero già nel 2010 sostenne con ardore un teorema simile, dice che è il momento che lo stato attivista faccia quello che l’imprenditore loffio ha paura di fare: cioè decida dove e come dirottare la massa di risparmi a disposizione. Non a caso è stato Wolf, in queste settimane, a rilanciare con una sua recensione il libro dell’economista italo-americana Mariana Mazzucato. “The Entrepreneurial State”, pubblicato originariamente nel 2011, due anni dopo ha goduto di stampa migliore: sarà il segno dei tempi, l’insoddisfazione con le politiche di austerity e con le riforme strutturali che hanno effetto solo nel medio-lungo termine, fatto sta che oggi sul Financial Times non è uno scandalo definire “brilliant” un volume che intende falsificare “il mito di un settore dinamico privato contrapposto a un settore pubblico pigro” (vedi articolo sotto di Stefano Cingolani).

Va pur detto che altri economisti, come Raghuram Rajan, pur partendo da diagnosi in qualche modo simili a quelle di Wolf, diffidano dal trasformare i banchieri centrali nei nuovi re taumaturghi. Rajan, allevato a Chicago e oggi governatore della Banca centrale indiana, ritiene pure lui che a suon di credito facile, e quindi di debito, si sia tentato negli ultimi decenni di camuffare le difficoltà del mondo sviluppato, cioè la sopraggiunta incapacità del nostro occidente di creare ricchezza ai ritmi di un tempo. Secondo lui, però, la via d’uscita dal dilemma del risparmio in eccesso non la forniscono gli investimenti pubblici: meglio la via lunga delle riforme pro competitività, della concorrenza temperata dalle pari opportunità (di partenza) per tutti.

Quel che è certo è che lo status quo, seppur a politiche monetarie spiegate, ci porterebbe invece a una ripresa appena decente. Al punto che tra qualche tempo, una volta dimenticate le formule immaginifiche ricorrenti in questi anni – tipo “apocalisse” o “luce in fondo al tunnel” – saremo imbottigliati nel “grande rallentamento” quasi senza accorgercene.

Lo Prete, FQ 21.11.2013

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