Dietro al “no” di Parigi all’Iran ci sono un tic

 francese,  l’assenza americana e un patto saudita

A Parigi c’è grande scetticismo verso Obama, un gran bisogno di fondi e una missione in arrivo

“Ni isolée ni suiviste”, ha detto ieri il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, spiegando lo stop voluto da Parigi all’accordo sul nucleare iraniano a Ginevra. Non sono isolati ma non seguono il gregge, i francesi, e così il mondo s’è capovolto: i falchi americani, messi tutti in un unico calderone neocon dal Monde, festeggiano la decisione francese ritmando “Vive la France”, mentre le colombe boicottano le french fries – tutto il contrario di quel che accadde con la guerra in Iraq, insomma. E’ circolato un tweet domenica attribuito alla Guida suprema iraniana, Ali Khamenei, che è pessimista sull’accordo nucleare (così ha detto qualche settimana fa) ma non tollera che i francesi si mettano di traverso: “I francesi sono stati apertamente ostili nei confronti della nazione iraniana negli ultimi anni. E’ una mossa imprudente e inetta”, e ancora: “Un uomo saggio, in particolare un politico saggio non deve mai sentirsi motivato a trasformare un’entità neutrale in un nemico”. I tweet erano in inglese, non è stata confermata la paternità, ma a marzo in un discorso pubblico Khamenei si era già grandemente lamentato delle prese di posizione di Parigi.

Nei palazzi della diplomazia francese gira voce che l’approccio “tutto-e-subito” di Washington con l’Iran aperturista non può essere adottato anche da Parigi. Ma tutti si chiedono: perché? Com’è che la Francia è diventata la nazione più interventista di tutto l’occidente? Quando ancora c’era il presidente gollista Nicolas Sarkozy, Parigi ha voluto il regime change in Libia contro Muammar Gheddafi; con l’arrivo del socialista François Hollande all’Eliseo c’è stata la guerra in Mali contro al Qaida, la presa di posizione – con tanto di aerei pronti a colpire – contro il regime siriano di Bashar el Assad (poi finita in nulla), e ora la freddezza con l’Iran. La spiegazione di questa strategia sta nelle pieghe dell’identità francese, nell’assenza di una politica estera americana, e anche – soprattutto, secondo i detrattori – nel rapporto con la corte reale saudita.

Alcuni esperti interpellati da giornali internazionali, come François Heisbourg del think tank Fondation pour la Recherche Stratégique, dicono che i francesi sono fatti così, sono irritanti a volte, si sa, se gli americani vogliono fortemente una cosa, loro devono trovare un modo per dissociarsi. Se si pensa che su questo dossier anche i tedeschi, contro i quali l’insofferenza a Parigi è palpabile, sono ben predisposti ad aprire a Teheran, il quadro è completo. Ma qui siamo ancora nell’ambito dei cliché. A parole Hollande continua a confermare la perfetta sintonia con Barack Obama, ma quel che è accaduto sulla questione siriana ha quasi stroncato l’Eliseo: a fine agosto, erano tutti d’accordo sul fatto che Assad non poteva rimanere impunito, il segretario di stato John Kerry aveva parlato di “oscenità morale” da parte di Damasco, lo strike era imminente. Ma Obama decide di aspettare l’autorizzazione del Congresso, il momentum svanisce, e Hollande s’è trovato a dover difendere, questa volta isolato per davvero e al di fuori del gregge, una guerra che poi non è stata fatta, ché i francesi da soli nulla potevano né possono in Siria. E’ riuscito a evitare un voto vincolante all’Assemblea nazionale, che avrebbe distrutto la sua credibilità interna, già fortemente ammaccata, ma sostenere da solo il peso dell’interventista non è affatto facile per Hollande.

Certo, ad aiutarlo ci sono i sauditi. Come è noto, la corte di Riad ha fatto di tutto per convincere Obama ad attaccare la Siria – l’obiettivo finale è contenere l’Iran – e quando pensava di avercela fatta s’è scontrata con l’ennesimo passo indietro di Washington. Il Wall Street Journal ha dato voce all’ira del principe Bandar bin Sultan, capo dell’intelligence saudita, il quale ha invitato a metà ottobre a Gedda “un diplomatico occidentale” per riorganizzare la strategia contro il regime di Damasco e notificare all’America tutto il suo scontento. Quel diplomatico era francese, e in quell’incontro s’è parlato di un accordo militare ulteriore rispetto a quello già siglato a luglio del valore di un miliardo di euro. Se all’asse con i sauditi si aggiunge che Parigi ha stretto i rapporti con Israele – Hollande parlerà alla Knesset lunedì prossimo, commercio e cooperazione sulla difesa vanno alla grande tra i due paesi – il complotto è presto confezionato: la Francia non è mossa da buone intenzioni, ma vuole ingraziarsi i sauditi e le monarchie del Golfo Persico che così parteciperanno più volentieri al bailout della Francia in crisi.

FQ- di Paola Peduzzi. 12 novembre 2013 - ore 12:00

Solo gli utenti registrati possono commentare gli articoli

Per accedere all'area riservata