La questione italiana. Le lezioni riformatrici di Berlino,

le ragioni di Washington e Fmi, la leggerezza di Roma

Siamo sicuri che la Germania sia “il più grave pericolo per l’economia globale”? Il Wall Street Journal ieri se l’è chiesto e ha risposto di “no”, in un editoriale che potete leggere sul Foglio di oggi. Il quotidiano finanziario statunitense edito da Rupert Murdoch, da sempre su posizioni liberiste, critica dunque il Tesoro americano che, in un suo rapporto semestrale sull’economia internazionale, ha puntato il dito sulla potenza esportatrice di Berlino. Tale potenza, sostengono i tecnici dell’Amministrazione Obama, non è più al servizio della moneta unica (e quindi del benessere globale), ma anzi rischia di rendere vani gli sforzi dei paesi che attraversano un processo di aggiustamento delle loro economie, Italia inclusa. Mentre la periferia dell’Eurozona tenta di diventare più competitiva per rilanciare l’export, e assume dosi di austerity fiscale che contribuiscono ad assottigliare l’import, il tutto nel tentativo di chiudere i deficit delle partite correnti, cosa fa la Germania? Continua a esportare in quantità, non si cura del suo squilibrio delle partite correnti (in avanzo crescente), e nemmeno rilancia quella domanda interna che potrebbe fare felici i nostri esportatori. Gli editorialisti del Wsj, non proprio gli ultimi arrivati nel mondo di chi interpreta economia e finanza globali, dicono che questa analisi del Tesoro è ideologicamente viziata – in senso keynesiano – e punta ad affossare i migliori per imbellettare le condizioni dei peggiori. Il rischio c’è. Ed è pure vero, come scrive il quotidiano, che “la Germania si sta godendo oggi i frutti delle riforme” degli scorsi anni. Noi cosa dovremmo goderci?

Il termine “verità” però, a maggior ragione nel corso di una crisi che continua a far arrovellare gli economisti più competenti, sarà meglio continuare a intenderlo al plurale. L’editoriale del Wsj descrive infatti un’Eurozona simile al modello statunitense, dove i politici nazionali non hanno leve monetarie per avvantaggiare i propri esportatori. Ma l’Eurozona è tutt’altra cosa rispetto agli Stati Uniti. Lo ha scritto lo stesso Wsj, in un suo reportage di ieri.

In un reportage giornalistico apparso ieri sul Wall Street Journal, si osserva per esempio che il nostro continente è l’unico in cui la Banca centrale si sia “astenuta da passi coraggiosi” come quelli compiuti da tutte le altre Banche centrali del mondo. Un atteggiamento prudente che in parte alimenta oggi lo spettro della deflazione, per esempio. C’è dunque un quid di realismo che non può mancare in ogni ragionamento sulle riforme nell’Eurozona. Queste sono necessarie quanto mai, ma oggi a molti paesi si chiede di portarle a termine in condizioni ambientali proibitive: le riforme strutturali (liberalizzazioni e mercato del lavoro, per esempio) andrebbero approvate di pari passo con tagli di bilancio, restrizione del credito ai privati, difficoltà per gli stati di rifinanziare il proprio debito pubblico (vedi il famoso spread). Non esattamente le stesse condizioni in cui la Germania, nei primi anni 2000, portò a termine le sue pur lodevoli riforme, cioè mentre il resto dell’economia mondiale cresceva.

Poi c’è una questione “regole” da non trascurare. L’Economist, per esempio, si chiede se i burocrati europei avranno ora il coraggio di applicare la legalità brussellese ai primi della classe. E’ vero o no che la Germania ha un avanzo delle partite correnti (essenzialmente la differenza tra export e import) superiore al 6 per cento del pil, cioè oltre la soglia d’allarme? E’ vero, e quindi un rientro da questo squilibrio è doveroso. Come pure è legittimo incalzare Berlino su quelle liberalizzazioni del mercato interno (servizi inclusi) di cui le aziende europee potrebbero beneficiare. Altrimenti si ripeterà lo schema dei primi anni 2000, quando ai paesi più forti (Germania e Francia) fu concesso pure di sforare sul deficit. Infine, sono in gioco coerenza e capacità di leadership della classe dirigente della prima potenza dell’Eurozona, da sempre fautrice di un processo di integrazione economica, culturale e politica. Plasmare le economie nazionali in base ai dettami rigoristi dell’“economia sociale di mercato” può essere cosa buona e giusta, a patto che quelle economie nazionali resistano e non diventino solo un fattore di instabilità (come temuto dal Tesoro americano). E a patto di ricordare che perfino Alfred Müller-Armack, colui che coniò l’espressione “Soziale Marktwirtschaft”, chiedeva questo ai paesi con surplus eccessivi sui conti con l’estero: “Amplino il loro import, se in posizione di eccedenza, e all’interno perseguano una politica espansiva”.

Far ragionare Berlino su tutto ciò, come propongono gli Stati Uniti e da ieri nuovamente il Fondo monetario internazionale, è legittimo. Più difficile che a poterlo fare sia un governo, come quello italiano attuale, impegnatissimo a rilanciare la guerra retorica ai “populismi antieuropeisti”, balbuziente sul fronte delle riforme radicali interne, ed evanescente nei rapporti con Berlino.

© - FOGLIO QUOTIDIANO di Marco Valerio Lo Prete   –   @marcovaleriolp 2 novembre 2013 - ore 06:59, 

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