Appunti per il dopo. Renzi perde il congresso
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e stravincerà le primarie. Poi del Pd che resterà?
Il sindaco fatica nelle sezioni, dove conta l’apparato, ma diventerà leader grazie agli elettori. E nulla sarà più come prima
“Bisogna azzerare tutte le norme sul mercato del lavoro”, ha detto al Messaggero, con grande scandalo nella Cgil ottobrista e nel suo stesso partito, il Pd, che adesso torna a osservarlo timoroso e diffidente, come si guarda un lanzichenecco precipitato a squassare le abitudini e la calma bizantina dell’apparato postcomunista. “Ma questo che vuole? Le sue idee fanno venire la pelle d’oca”, dice Cesare Damiano, deputato del Pd, solido ex ministro del Lavoro. Con la sua solita andatura spiccia, Matteo Renzi ha ricombinato, d’improvviso, il socialismo temperato del suo Yoram Gutgeld, l’economista che lo aveva avvicinato un po’, forse per calcolo tattico, ma chissà, alla polvere laburista in un momento in cui era opportuno accarezzare per il verso giusto il pelo morbido e convenzionale del pensiero old labour. “La riforma Fornero non era affatto sbagliata”, dice adesso Renzi, tornato demolitore della tradizione socialdemocratica. E la Cgil da cui proviene Guglielmo Epifani? “I sindacati rappresentano solo i pensionati”. E insomma Renzi si trova tra le dita un filo da tirare che, a saper fare, può smagliare tutto un tessuto di amicizie e interessi, identità e simboli, in cui la stessa esistenza del Pd è intramata. Eugenio Scalfari la chiama “mutazione antropologica”, Massimo D’Alema, sotto i baffi, sussurra che “è la fine del partito”, perché arrembante ed egotico, il sindaco di Firenze divide, separa l’apparato dai suoi elettori: rifiuta la logica consociativa e concertativa, prima decide e poi forse chiede, non ama i sindacati e nemmeno la Confindustria, ha fatto gli scout ed è cattolico, ma non ha niente del democristiano vecchio stampo, né dell’uomo sovietico, in politica non ama gli arabeschi, parla male ma parla dritto. Usque tandem, fino a che punto il Pd sarà in grado di reggere l’avanzata per linee interne di questo straniero camusiano? Con il suo incedere zigzagante, bicipite, opportunista – ma vincente – Renzi punta alla conquista delle primarie, è qui la festa mobile del piccolo Matteo: il cuore del consenso elettorale (e non liturgico) del Pd. Del congresso e delle tessere, della conta interna, che in queste ore premia Gianni Cuperlo, e “dell’anima della sinistra” (parole di Ezio Mauro), adesso, lui, se ne infischia.
Il congresso lo sta già perdendo, la conta tra gli iscritti va maluccio, e questo il giovane e ambizioso Renzi lo sa, lo ha capito bene ma fa il vago, la sua è un’accettazione persino irridente della sconfitta, in un mondo, quello delle tessere, che lui ora mostra di considerare piccolo e antico, irrilevante, malgrado i suoi recenti tentativi di lusingare e conquistare la gauche salottiera da centro storico, quella che sempre lo ha percepito con urtante senso di estraneità. I centosettantaseimila tesserati del Partito democratico che hanno votato fino a oggi hanno eletto quarantotto segretari per il suo sfidante Cuperlo, nipote spurio della tradizione di Botteghe Oscure, e solo ventotto tra i renziani. La partita, quella congressuale, è ormai decisa a suo sfavore, ma poco importa (dice lui).
La politica del futuro anteriore
Così il sindaco, aspirante segretario, lui che vive in una completezza smemorata e raggiante, ha riscoperto Pietro Ichino, l’eresia nel mercato del lavoro, e quell’idea sgangherata – per il Pd vecchio stile – che l’agenda liberale di Francesco Giavazzi sia in fondo una cosa di sinistra. Renzi vive nella prefigurazione minuziosa non del domani – il domani sarà uguale all’oggi, forse, ma la nebbia lo avvolge – bensì dei quindici o trenta giorni che lo attendono, di gesto in gesto, di capriola in capriola: la sua sfasatura è voluta e inesorabile, il suo tempo è il futuro anteriore e sarebbe piuttosto il futuro anteriore prossimo, che le grammatiche però non registrano. Dunque adesso non ci prova nemmeno più ad assecondare i riflessi condizionati del Pd tradizionale, a cui pure aveva strizzato, eccome, l’occhio – e non solo sull’economia – con una benignità incitata dal calcolo, affettata persino: “Su Berlusconi il voto dev’essere palese”, diceva lui che il Cavaliere l’aveva pure incontrato ad Arcore, “l’amnistia mai”, diceva lui che nel 2012 sosteneva la battaglia civile di Marco Pannella, e poi ancora la lotta severa all’evasione fiscale, il controllo poliziesco sul denaro contante, le politiche sociali e benecomuniste sulla casa… Tutto cancellato, o quasi. La sua nuova impennata liberista, le sue carezze pubbliche a Elsa Fornero e i suoi incontri privati con Mario Monti (che sogna un ruolo ministeriale nella squadra di Renzi) lo restituiscono alle origini da Rottamatore, elemento spurio del centrosinistra, avversario temutissimo da un apparato che non sa più come muoversi né come difendersi. “Se vince, il Pd non si tiene più insieme”, è la febbre di D’Alema.
FQ. di Salvatore Merlo – @SalvatoreMerlo, 2 novembre 2013 - ore 10:30