L’avvocato del diavolo

Incalzata da uno strano “pizzino” corrierista, la Cassazione

anticipa l’ordalia sul processo Mediaset. Franco Coppi è l’uomo che deve impedire l’eliminazione del Cav. per via giudiziaria. Deadline: 30 luglio

E se stavolta vincesse il diavolo? Il suo avvocato dice che si può fare, malgrado lui, il belzebù d’Italia, tema sul serio che il cappio giudiziario glielo vogliano stringere al collo comunque, per ragioni politiche, anche a dispetto del diritto. E dunque vive l’epico dramma del dubbio, eternamente in bilico il Cavaliere vuole battersi, ma ancora non sa se deve farlo da imputato o da statista, se affidandosi completamente al suo magico Franco Coppi, l’avvocato del diavolo che lo invita al silenzio e alla temperanza, oppure no. Essere o sopravvivere? La cassazione ha anticipato l’ordalia del processo Mediaset, tutto si gioca il 30 luglio, non ci sarà nessuna prescrizione, e il destino giudiziario di Silvio Berlusconi adesso è nelle sole mani di questo legale meticoloso, principe dei cassazionisti, professore paludato e con un’anima di sinistra che si muove con agilità tra articoli e commi, tra quegli oscuri dettagli che nelle sentenze celano il fallimento del diritto e la salvezza dell’imputato.

Alle 15 il Cavaliere arriva in automobile all’aeroporto di Milano, finestrini oscurati come il suo umore. Berlusconi attraversa i cancelli, poi raggiunge a piedi il salottino dove ad attenderlo c’è Daniela Santanchè, la pasionaria, si baciano, poi salgono le scalette dell’aereo privato che deve portarli a Roma, un’ora scarsa di volo, abbastanza per mettere in fila gli eventi, e i retropensieri, d’una giornata complicatissima. Berlusconi è preoccupato mentre prende posto in cabina, a tratti tetro, da alcuni minuti, dopo una telefonata, ha ricevuto la notizia delle notizie, e gli si è guastata la giornata. Adesso sa che ci sarà sul serio la resa dei conti giudiziaria in Corte di cassazione e che tutto, davvero tutto, ora dipende dalla bravura di Coppi, il suo avvocato, il cassazionista penale più celebrato d’Italia, il difensore di Andreotti e di Sabrina Misseri (la cugina di Avetrana che lui chiama “la sventurata”), lui che dovrà destreggiarsi nei vizi di forma del processo Mediaset, nei meandri più involuti della sentenza che in Corte d’appello ha condannato il Cavaliere a quattro anni di reclusione e a cinque d’interdizione dai pubblici uffici. Niente prescrizione, neanche parziale, adesso davvero si combatte con il rischio del carcere, e c’è pure poco tempo. La Cassazione ieri, a sorpresa, ha anticipato i tempi previsti per l’udienza che si attendeva a settembre, forse persino a novembre, un incastro per il quale una parte della condanna d’Appello sarebbe automaticamente caduta in prescrizione cancellando così il rischio della galera, dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici che per il Cavaliere significa ovviamente l’ineleggibilità, la decadenza dal seggio parlamentare e chissà che altro.

L’idea della prescrizione, per settimane, è stata il balsamo, l’intimo sollievo che Berlusconi ha coltivato nei recessi più privati della sua mente, e nei colloqui con i familiari e con gli amici, un pensiero che rendeva più semplice l’intero passaggio giudiziario, meno aspro il rischio, meno tesa la pugna, ed era la ragione vera, profonda, intima, della calma che il Cavaliere stava cercando di imporre a se stesso e poi anche all’interno del suo Pdl e della sua corte così agitati. E invece no, tutto è anticipato di tre mesi, la battaglia finale si combatterà in piena estate e si concluderà ad agosto, con un incidentale retropensiero che attraversa fulmineo la mente del Cavaliere mentre in volo si avvicina all’aeroporto di Roma dove, intanto, al Castello, lo attendono schierati e pronti a ogni resistenza i suoi cortigiani in armi: “E’ stata la procura di Milano a influenzare la decisione della Cassazione”, opina Berlusconi.

E la coincidenza viene notata, sottolineata persino con aggressività dagli uomini di Castello Grazioli, perché i giudici hanno fissato l’udienza soltanto ieri, soltanto dopo aver letto un articolo del Corriere della Sera, un pezzo tecnico e informatissimo. “Un pizzino giudiziario”, dicono loro, “il Corriere detta, la Cassazione scrive”, azzarda l’onorevole e avvocato Enrico Costa, un articolo nel quale si spiegava con perfetta logica giuridica l’incastro della prescrizione, la parziale salvezza che per il Cavaliere sarebbe arrivata se davvero, com’era chiaro fino a ieri pomeriggio, la suprema corte avesse fissato l’udienza Mediaset in autunno. “Sono esterrefatto, una cosa del genere non si era mai vista. Un’udienza così, tra capo e collo, penalizza la difesa”, si contorce Coppi, che rileva l’irritualità della decisione, affetta stupore, ma che pure, in segreto, nel suo studio dei Parioli, ha già pronta una difesa formidabile del suo assistito, perché la sentenza della Corte d’appello di Milano, quei faldoni che i collaboratori del professore hanno già passato al microscopio, sono pieni di quelle piccole imperfezioni, di quelle impurità giuridiche, che sono l’elemento naturale nel quale Coppi si muove da una vita con pignoleria professorale e precisione chirurgica, una complessità speciale che diventa arte del destreggiarsi nella giurisprudenza, tra gli articoli, i commi e i sottocommi, “è un caso chiaro, deciso in una grida, confermata poi da un’altra grida…”. E lo sanno anche in procura a Milano che la sentenza d’Appello forse non regge, lo sanno benissimo, o meglio lo temono fortemente anche gli accusatori incupiti del Cavaliere, gli stessi che, secondo il mormorio di Arcore e degli studi legali coinvolti nella difesa, hanno caricato il Corriere della Sera perché suonasse l’allarme.

Così, come sempre capita con il Cavaliere, anomalo e gigantesco, inafferrabile e debordante per natura, la politica s’intreccia con la giustizia e con il sistema dell’informazione, in un groviglio inestricabile e pauroso per chiunque tenti anche solo di spostare, di valutare la consistenza, il senso o il peso, d’uno dei tanti fili che si attorcigliano tra loro nel circo mediatico-giudiziario d’Italia. Negli ambienti più militanti del collegio difensivo, tra gli amici dell’onorevole e avvocato Niccolò Ghedini, si sussurra che “la Cassazione ha avuto paura di una battaglia mediatica, ha avuto paura di subire gli attacchi dei giornali manettari, del Fatto e della Repubblica, ha vissuto l’articolo del Corriere della Sera come un avvertimento”. E lo stesso Coppi, cauto com’è, insinua, allude, “non vorrei creare collegamenti, ma in effetti…”. E all’improvviso, nel Pdl che sembrava pronto alla villeggiatura, nei corridoi del partito in cui i falchi da qualche giorno erano stati messi in silenzio dall’ala governativa guidata da Angelino Alfano dopo gli attacchi un po’ scomposti al ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni, d’un tratto è riesplosa l’inquietudine, violenta, “c’è un piano per eliminare Berlusconi”, dice Mariastella Gelmini, l’ex ministro dell’Istruzione, “è così chiaro che bisogna essere stupidi o in malafede per non capirlo”.

E dunque tutto adesso è davvero nelle mani dell’avvocatissimo, nato nel 1938 per uno scherzo del destino a Tripoli, dove lavorava il padre dirigente della Fiat. “Ma Silvio doveva assumerlo trent’anni fa”, si lascia sfuggire Fabrizio Cicchitto, il vecchio amico del Cavaliere, nelle ore angosciose e incerte che preludono alla resa dei conti politica e giudiziaria, mentre il governo di Enrico Letta trema, ma non cade. E davvero nessuno sa se sia più difficile per Coppi difendere Berlusconi, lui che ha subito frapposto una distanza fra sé e la corte berlusconiana, “io difendo solo il mio assistito”, o se invece sia più difficile per Berlusconi essere difeso da Coppi, visto che il super avvocato gli impone la regola del silenzio, la temperanza e la moderazione pubblica, mai una parola fuori posto, mai contro i magistrati, e tutti sanno quanto costi al Cavaliere questo mutismo forzoso. I due uomini sono completamente diversi, il professore e l’imprenditore, l’uomo burbero e quello gioviale, l’operatore del diritto e il funzionalista.

Di appena due anni più giovane del Cavaliere, Coppi è lontanissimo per carattere, stile e frequentazioni dall’universo del suo grande assistito, un mondo fatto di lustrini e di ribalta pubblica, di televisioni, di rappresentanza politica e di rappresentazione scenica. Mentre Coppi è un uomo riservato, di poche, precise, parole, uno che rifugge le barzellette, il pubblico, i salotti televisivi, le interviste, le telecamere che pure lo corteggiano da sempre, perché lui, nella sua lunga carriera, ha difeso cause che sono entrate nei libri di storia, il processo per il golpe Borghese del 1970, lo scandalo Lockheed, e poi il processo del secolo, quello a Giulio Andreotti.

Ed è stato ovviamente Denis Verdini, l’uomo delle operazioni sotto copertura, a portare Franco Coppi alla corte di Arcore. Ci voleva proprio il regista degli equilibrismi più spericolati per agganciare il grande cassazionista, perché Coppi nel collegio difensivo del Cavaliere è una furbata d’immagine e di sostanza, è una trovata geniale, ha l’eleganza d’un abito di sartoria; lui che incute rispetto persino nei giudici, che insegna all’università ed è conosciuto e rispettato anche all’estero, occulta infatti Ghedini, il più giovane e aggressivo avvocato veneto, l’artefice – fino a ieri – di un’efficace strategia della dilazione, fatta anche di un continuo, strenuo corpo a corpo carnale con i magistrati e gli inquisitori della procura di Milano. Coppi, elegante e compassato, un filo di trascuratezza nel portamento così tipico di chi dedica la sua vita quasi esclusivamente al lavoro, è il re della Cassazione, laddove la strategia tosta di Ghedini ha trascinato, con efficacia, il processo Mediaset arrivato ormai a conclusione. Ed è lì, nel terzo grado di giudizio, tra le carte e i codicilli, ormai senza prescrizione, che giocherà Coppi, nella corte dove non serve più il fisico di Ghedini, perché di fronte a quei giudici supremi non ci vuole il piglio del kamikaze ma sono necessari il rigore, l’equilibrio e la tecnica. In Cassazione non c’è pubblico, non c’è platea e non c’è imputato, nessun legittimo impedimento da invocare, niente sospiri o braccia che si sollevano, non c’è carne e non c’è faccia, nessun dibattimento, niente sguardi e niente provocazioni.

Difficile immaginarsi Perry Mason in Cassazione, lì l’avvocato non crea universi, ma cerca errori e inconcludenze, avanza nei meandri delle norme alla ricerca d’oscuri dettagli che celino il fallimento del diritto, tutte quelle cose che tecnicamente si chiamano vizio di forma, e che nello studio Coppi, a Roma, sono già sicuri di aver trovato nelle pieghe della sentenza d’appello sul caso Mediaset, perché lo stesso errore che forse ha spinto la Cassazione ad anticipare la sua udienza al 30 di luglio, nelle mani di Coppi, è anche questa un’arma, e che arma, per demolire il dispositivo di condanna. “Vedete, a saper bene maneggiare le grida nessuno è reo e nessuno è innocente”, diceva Manzoni. E d’altra parte l’avvocato e professore, ordinario di Diritto penale alla Sapienza, cattedra vera e non un pennacchio sul cappello, è uno di quei legali così rigorosi, persino esageratamente professionali, che non chiede mai ai suoi clienti se sono colpevoli o innocenti. “Il compito di un difensore”, ha detto una volta alla Stampa, “è la valorizzazione di tutti gli elementi a favore dell’imputato”, anche se si tratta del Caimano, di belzebù, del diavolo Berlusconi.

Oltretutto – altra anomalia – Coppi viene dal mondo che piace a chi il Cavaliere lo vorrebbe interdetto e finito, esiliato in patria o uccel di bosco in una delle sue tante possibili Hammamet.

E dunque è chiaro che aver assunto Coppi non significa necessariamente voler cambiare strategia politica, e non ha niente a che vedere con il carattere del Cavaliere, con la pacificazione nazionale, con la politica, con il Quirinale, con l’Italia disperata o con il governo di Enrico Letta e la grande coalizione, malgrado il professore abbia chiesto al Cavaliere di non strepitare e di non abbandonarsi agli eccessi della sua corte affranta e agitata. Gli effetti politici ci saranno, il centrodestra si mobilita e fa quadrato intorno al suo capo, malgrado tutto. Malgrado al telefono, nel climax ascendente delle dichiarazioni furibonde che arrivavano dalle mura del Castello, dai cortigiani in armi, persino dai ministri prestati alle larghe intese, l’avvocato abbia chiesto calma e sangue freddo al suo assistito. E lui, Berlusconi, bon gré mal gré, ha obbedito, come si è ormai rassegnato a fare da diverse settimane, si è trattenuto a stento, nessuna dichiarazione pubblica violenta, nessuna increspatura eccessiva, nessuna denuncia pubblica di “colpo di stato”, nessun giudice “matto”. Non ancora almeno, non a favore di telecamere, per il resto la frase che consegna ai suo fedelissimi non ha bisogno di interpretazioni: “Tutto sta andando come non doveva andare”.

Il Cavaliere ha chiamato Franco Coppi perché è semplicemente il migliore, perché gli serviva un esperto di “diritto” e non di “storto”, perché solo la sopraffina tecnica del professor Coppi è la prosecuzione con altri mezzi del lavoro dell’avvocato Ghedini. E l’avvocato del diavolo pensa di potercela fare, di poter vincere, “chiederemo l’annullamento con rinvio della sentenza della Corte d’Appello di Milano”, dice. Ma la politica italiana è già attraversata da un profondo tramestio, che non promette niente di buono, e che nella strategia del Cavaliere non deve avere necessariamente un collegamento immediato con le sorti della sua tormentata vicenda processuale. “Noi dobbiamo mobilitarci, non possiamo certo accompagnarlo verso il carcere senza fare nulla”, dice Daniela Santanchè. E il Cavaliere che farà? “Ci penserà lui, noi invece dobbiamo darci una mossa”, come dire: Berlusconi starà in silenzio mentre il Pdl farà tanto rumore. “Ma chi tace, di solito, acconsente”.

Arrivato a Roma, ieri sera, il Cavaliere, che aveva previsto di parlare di fronte ai suoi deputati, di placare gli animi esasperati dalla contesa sull’Imu e l’Iva, ha annullato l’incontro. Lui che si proponeva di difendere un po’ il governo e il ministro dell’Economia Saccomanni sotto schiaffo, ha lasciato, in un silenzio gravido di incognite, che persino le placide colombe ieri si trasformassero in falchi. “C’è chi vuole destabilizzare il governo con questa manovra giudiziaria”, si lamenta Fabrizio Cicchitto, “la composizione di questa maggioranza è del tutto sgradita a precisi ambienti giudiziari, editoriali e politici”. Anche Angelino Alfano, il vicepremier e ministro dell’Interno, ha parlato, e con lui tutti i ministri che il centrodestra ha prestato al governo di Enrico Letta ieri hanno giurato e spergiurato la loro fedeltà pubblica al sovrano di Arcore. Il destino del governo è nelle mani del Cavaliere, ma il destino del Cavaliere è solo in quelle del suo avvocato.

© - F.Q.di Salvatore Merlo   –   @SalvatoreMerlo

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