“Mazze, mazze”. Tra i Fratelli musulmani che al Cairo

resistono ai “golpisti”

Il Cairo, dal nostro inviato. Ieri è stato il primo giorno dopo la strage al sit-in dei Fratelli musulmani nel settore est del Cairo. Hanno fatto dei cerchi con le pietre sull’asfalto dove sono caduti i corpi dei loro – fulminati dalle pallottole sparate dai soldati – tanto le macchine per queste strade non passeranno più, “guarda, guarda il sangue che c’è ancora!”. Hanno montato teli e tende tra gli spartitraffico, hanno alzato muretti a secco per bloccare l’ingresso dei viali che portano verso la base militare della Guardia repubblicana, che loro sono convinti custodisca il loro rais deposto, Mohammed Morsi. Hanno schierato un servizio d’ordine con in testa i caschetti da cantiere e in mano le mazze a sorvegliare gli accessi, se non hai un’arma contundente tua ci sono pure i venditori ambulanti, “mazze, mazze”, dicono, le più belle sono corte, nere, hanno una fibbia di cuoio. Sottobraccio hanno i giornali di partito con tutte le facce dei morti. Da qui, da Raba el Adawiya i Fratelli non se ne vanno. Sta diventando il luogo simbolo dello scontro tra islam e militari per il controllo dell’Egitto e loro si stanno trincerando.

Ieri era anche la vigilia del mese sacro e di digiuno del Ramadan e sul Cairo è caduto l’ultimo tramonto sazio. Da questa mattina e per la durata di un ciclo lunare è suhur: l’abbondanza del pasto rituale prima del levare del sole per resistere senza toccare cibo fino al tramonto. Tra le tende e gli striscioni di Raba el Adawiya, proprio in faccia alla base militare che ha inghiottito Morsi, i Fratelli musulmani stanno ritrovando la loro vocazione reale, che è quella di resistere alle persecuzioni di un potere militare troppo più potente di loro. Che ci faranno mai con le nuove mazze e a pancia vuota contro i fucili dei cecchini?

“Coup, coup”, hanno scritto con la vernice rossa sui muri della base, “il mio voto conta”, “democrazia”, “legittimità”, dicono gli striscioni in inglese e con i colori della bandiera nazionale: come se volessero convincere chi guarda che la fine del primo governo della Fratellanza nella storia è una questione di malfunzionamento democratico, da aggiustare per rientrare di nuovo e presto dentro i canoni della correttezza costituzionale. “Rifiutiamo il ciclo della violenza, la nostra protesta sarà pacifica”, dicono al Foglio. In realtà è un ritorno, un riflusso verso le origini e l’essenza del movimento. Qui, tra le macchie di sangue sull’asfalto e gli striscioni con le scimitarre incrociate, con la minaccia sempre incombente di altre botte di violenza da parte dell’esercito, i Fratelli abbandonano la novità del governare l’Egitto – a cui si sono dimostrati così poco portati: una riunione con il Fondo monetario internazionale al mattino, un incontro con gli statali in sciopero al pomeriggio – e ritornano al loro vero talento, la resistenza organizzata contro lo stato nemico. Niente più responsabilità da affrontare, soltanto repressione. Viene da chiedersi se non ci sia anche un qualche sollievo in questo desiderio di martirio.

La strage di lunedì mattina – almeno 54 morti – ieri è diventata uno scontro di versioni opposte. I militari egiziani sostengono di avere soltanto risposto a un attacco dei Fratelli, ma i video che portano a testimonianza sono tutti girati alla luce del sole e invece gli spari sono cominciati prima dell’alba. Gli islamisti esibiscono fotografie dei “cinque bambini che i soldati ci hanno ucciso”, ma poi si scopre che le immagini vengono dalla Siria; dicono anche che sono stati soffocati dai gas lacrimogeni, ma pare inverosimile. Però mostrano i fori delle pallottole nei pali della luce e nelle ringhiere e quelli sono reali, sono colpi sparati da vicino, ci sono i buchi d’entrata e pure d’uscita. Infilano una cannuccia dentro un palo colpito, punta come un dito accusatore verso il luogo d’origine dello sparo: le garitte della base militare. I cerchi di pietre che segnano la posizione dei caduti sono in sequenza e anche i video presi con i telefonini confermano, i cecchini hanno deliberatamente scelto bersagli singoli nel mucchio sotto di loro.

Anche il governo del dopo golpe si trincera, prova a trovare un assetto per continuare, prova a essere presentabile il prima possibile aiutato dai suoi sponsor esterni. Ieri, quando ancora doveva uscire la notizia sulla tv di stato della nomina di Hazem el Beblawi a primo ministro, una delegazione degli Emirati Arabi Uniti è arrivata al Cairo per annunciare un finanziamento da tre miliardi di dollari e l’invio di trentamila tonnellate di carburante diesel – essenziale per energia elettrica, lavori agricoli e veicoli da lavoro. Gli Emirati avevano già fatto un annuncio per due miliardi di dollari nel 2011, ma poi non li avevano mai effettivamente fatti arrivare, evidentemente insoddisfatti dall’ascesa della Fratellanza musulmana. Anche l’Arabia Saudita ieri ha subito annunciato un prestito per due miliardi di dollari. Durante il golpe era circolata la notizia che tutto fosse organizzato da sauditi e dagli Emirati, che detestano la Fratellanza musulmana e la considerano una minaccia potenziale alla loro stabilità, ma come spesso capita è una notizia a cui non è possibile trovare riscontri. Ora il comportamento dei due regni del Golfo non dissipa le teorie del complotto.

Da piazza Tahrir, che è il terzo polo debole di questa sollevazione, il movimento Tamarrod, la Ribellione, ieri ha criticato la nuova bozza di Costituzione e l’ha definita “dittatoriale”; ma già ha perso la sua voce e non sembra possedere più la sua capacità di mobilitare la piazza. Come contro Mubarak nel 2011, il movimento più ispirato e liberale è stato funzionale a rovesciare il presidente e poi è subito ritornato nell’irrilevanza.

* La rivoluzione va avanti (mazze mazze)

© - FOGLIO QUOTIDIANO di Daniele Raineri   –   @DanieleRaineri, 10/7

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